Fame blu - Viola Di Grado
(tratto da repubblica.it)
La ricerca di una identità propria che passa attraverso il bisogno ossessivo dell’altro sfuma i confini tra amore e sofferenza. Il nuovo romanzo della scrittrice catanese Viola Di Grado, Fame blu (La nave di Teseo), mette in scena questo processo e condivide con l’opera dell’autrice una particolare esplorazione del linguaggio, non tanto come mezzo, ma come campo di azione, in cui tutta la storia si innesta.
Un romanzo che non parla di Sicilia né di Londra ma di Shanghai, dove Di Grado ha vissuto, ospite di una residenza per scrittori. La storia di una ragazza che va in Cina dopo la morte del fratello gemello, che sognava di aprire un ristorante proprio lì, e incontra una strana coetanea di nome Xu. Le due si trovano, si somigliano, si amano, si mangiano (argomento trattato da Luca Guadagnino nel suo film Bones and all, anche se lì si trattava di cannibalismo, qui no) accomunate da una fame implacabile e insaziabile, fame di cibo ma soprattutto di affetto.
Come le è venuta l’idea del libro?
“Ero in Cina nel 2019, poco prima dell’inizio del Covid. È stata la città stessa a darmi l’idea. Shanghai è diventata la creatrice della storia. Avevo l’ossessione del Mattatoio, un luogo che esiste e che non è nelle guide turistiche, ma che volevo vedere. Mi ci sono fatta portare da una ragazza conosciuta per caso e che si professava una mia fan sfegatata”.
Dice di avere vissuto in molti posti. Che ruolo ha Londra in questo girovagare?
“A Londra ho vissuto varie volte. Arrivavo, ci stavo un po’ e poi fuggivo. Questa è la terza volta che mi ci stabilisco, ma è la definitiva. Fuggivo dalla Sicilia, arrivavo a Londra e poi fuggivo anche da qui. Ma sono tornata perché Londra è la mia patria spirituale e letteraria”.
Patria letteraria. Allora quando è venuta a Londra aveva già in mente di fare la scrittrice?
“Per me è la scrittura è sempre stata parte del mio essere. Dire “voglio fare la scrittrice” ha lo stesso valore di dire “voglio fare la donna”. Lo sono e basta. Non l’ho mai visto come un lavoro, ma come parte della mia identità. Ho sempre scritto, da quando avevo quattro anni. Quando avevo sei anni ho scritto il primo racconto. Ne andavo molto fiera e l’ho mandato a una trasmissione per bambini della Rai. L’hanno letto in un’altra trasmissione dedicata ai bambini prodigio. Poi ho scritto vari romanzi, che però non sottoponevo a nessuno, perché non mi sentivo ancora pronta. Quando ho pubblicato il primo libro (che ha vinto il Premio Campiello Opera Prima nel 2011, facendo di Viola Di Grado la più giovane vincitrice del premio, all’età di 23 anni, ndr) intitolato Settanta Acrilico Trenta Lana, mi sono accorta che stava diventando una professione”.
La scrittura va di pari passo con la traduzione. Lei traduce Patricia Highsmith, Joyce Carol Oates, grandi scrittrici e guarda caso tutte donne.
“Sono stata fortunata che mi abbiano proposto questi nomi. Sono laureata in lingue e quindi ho sempre amato il linguaggio. La traduzione è “scrivere senza scrivere” e peccato che il tradurre sia così sottovalutato. Si parla sempre dello scrittore ma quando leggi un libro straniero leggi un libro che è stato riscritto totalmente, trasformato, ripensato dal traduttore”.
Nei suoi libri c’è spesso un senso di straniamento. È un sentimento che prova in quanto persona che vive in un Paese che non è il suo?
“Lo straniamento mi accompagna da sempre. Mi sono sempre sentita un’aliena, indipendentemente dal luogo in cui abito, come una che parla un altro linguaggio rispetto agli altri. Questo accomuna l’io narrante di tutti i miei libri. Ho vissuto in tanti posti e alcuni li ho messi nei miei libri perché tutti reclamavano di essere raccontati. L’Islanda è quello che più mi ha colpita. I suoi paesaggi somigliano ai miei paesaggi psichici. Non ho ancora ambientato un libro a Londra, ma lo farò. Londra è un posto così importante per me che la tengo da parte per qualcosa di altrettanto importante”.
Cosa pensa del Regno Unito, il Paese che la ospita, che in questo periodo è al centro di molte turbolenze? Molti connazionali se ne stanno andando, causa Brexit e non solo.
“So che molti se ne sono andati, ma nelle questioni più importanti continua a esserci una differenza profonda tra Italia e Regno Unito. La situazione in Italia per le persone LGBT mi provoca molta vergogna. In questo campo siamo molto indietro rispetto a qualsiasi Paese d’Europa. Questo è uno dei motivi per cui non vivrei in Italia. Il Regno Unito, invece, è un Paese senza discriminazioni, in cui il razzismo non è tollerato”.
Che rapporti ha con la comunità italiana che vive a Londra?
“Mi interessa molto tenere rapporti con la comunità del Paese da cui provengo, soprattutto quella che ruota intorno al mio mondo, ma ho notato che a volte, quando qualcuno capisce che sono italiana, l’interesse nei miei confronti diminuisce. Gli italiani sono molto esterofili”.
Sta scrivendo qualcosa d’altro?
“Sembra assurdo ma ho quattro romanzi in cantiere. So che sembra una follia ma è così. Uno è finito e lo manderò a breve all’editore”.