Vedi tutti

Gli ultimi messaggi del Forum

Il bacio di Swann - André Aciman

André Aciman è uno studioso di Marcel Proust, e si sente. E, con una formazione tale, non può che metterci in guardia sin da subito: questi saggi plasmano e sono plasmati sotto la lente degli irrealis moods. Sono quei tempi verbali che descrivono qualcosa che non è accaduto ma di cui si desidera l’accadimento, anche se non c’è alcuna possibilità di sapere se avverranno davvero. In italiano li rendiamo con il congiuntivo e il condizionale. Infatti, il titolo originale dell’opera è proprio Homo Irrealis. E quello che Aciman mette in atto è un po’ un incrocio fra la rappresentazione del Bacio di Swann e questi modi verbali: attraverso le storie delle personalità toccate dall’arte, cerca di costruire quello che, nella sospensione del desiderio, della vulnerabilità – quello che vorremmo e che non siamo, che desideriamo fermare e non possiamo – attecchisce e si fa racconto del vivere.

È un viaggio all’insegna dello smembramento del tempo, della messa in discussione delle nostalgie che si provano e forse non sono tali, di quello che pensiamo ci descriva, ci avvolga e poi invece è la storia che ci siamo voluti raccontare per essere fuori da un presente, non importa quale, quello che c’è, effettivo e reale, che tutto crea e che tutto confà nell’insofferenza.

Sì, perché queste pagine – che non si possono descrivere, ma da cui bisogna farsi attraversare – ci presentano un conto molto veritiero e lampante: non viviamo mai il momento. Per quanto ci raccontiamo di essere nell’hic et nunc, in realtà non ci siamo mai. Siamo sempre in un irrealis mood, nella fierezza sconfitta del nostro essere uomini irreali, sempre vibranti in un’essenza che non rispecchia quello che viviamo adesso.

Esisto e desidero. E nel momento esatto in cui desidero ho paura di quel desiderio e traspongo la mia essenza altrove. Nel passato, nel futuro, un posto-tempo sicuro in cui rifugiarsi, in cui la realtà e concretezza del mio stare non prendano una forma definitiva.

Davvero questo libro dice questo? Dice questo a me. Sì, perché la forma più portentosa del Bacio di Swann è che parla diversamente a chiunque legga. Ognuno trova le sue forme o scappa via, come nel mio caso, davanti a quest’irrequietezza seminata. Allora, i personaggi che si incontrano, che siano Freud, Monet, Kavafis, Hopper, l’illuminante e prezioso Pessoa, non sono che pezzi di un puzzle – cose che avremmo voluto capire e forse sapevamo, ma da cui scappiamo, in preda alla nostra ineluttabile nostalgia.

Ché forse siamo questo: frutti acerbi di cose che avremmo voluto vivere, la convinzione che esse ci avrebbero cambiate, resi diversi. Questo siamo, sì, la certezza mancata di quello che avremmo potuto essere con altre scelte, con le nostalgiche convinzioni in cui ci culliamo – quello che non è e mai sarà. Eccoci, figli di quello che non capita e che – convinti – crediamo avrebbe cambiato tutto. Viviamo lì dentro: nei tempi sospesi, nelle certezze irreali, nei baci di Swann.

Luna rossa - Jo Nesbø

Harry Hole è tornato, apparentemente per decretare la propria fine.
Il nuovo, atteso romanzo di Jo Nesbø, Luna rossa (Einaudi, 2023, trad. di Maria Teresa Cattaneo, Stefania Forlani e Eva Kampmann), segna il ritorno del noto detective norvegese, già protagonista di numerose indagini, che dopo la morte della moglie ha lasciato la polizia di Oslo e si è trasferito in California, a Los Angeles.
La città con il più alto numero di senzatetto di tutti gli Stati Uniti gli sembra un buon punto di partenza per un lento suicidio con l’alcol.
Eppure, proprio sull’orlo del baratro, incontra qualcuno disposto a dargli una mano: Lucille, un’anziana attrice che ha avuto un ruolo importante in solo un film in tutta la sua carriera, che è stata lasciata sul lastrico dall’ultimo marito e che, per mantenere uno standard di vita che non si può permettere, ha chiesto denaro in prestito.
Il debito, cresciuto a dismisura, è ora di proprietà di un cartello della droga messicano che la minaccia di morte se non pagherà quanto dovuto.

Per poter aiutare l’amica, Hole accetta il lavoro — rifiutato una prima volta — che gli viene proposto da un sospettato di duplice omicidio in Norvegia: ha solo dieci giorni per trovare l’assassino di due giovani donne uccise in modo brutale.
L’unico legame apparente fra loro è il ricco uomo d’affari che ha invitato entrambe a una festa. Markus Røed però si dichiara innocente e non si fida della polizia, dopo aver rintracciato Hole si accorda con lui tramite il suo avvocato e, se il caso verrà risolto, il compenso di novecentosessantamila dollari servirà a liberare Lucille.
Con lui, nella squadra, l’amico d’infanzia Øystein, un ex tassista che ora si guadagna da vivere vendendo cocaina e che fornisce a Harry un mezzo di trasporto; Truls Berntsen, il poliziotto corrotto, rimosso dal servizio, ma che ha ancora accesso alle informazioni della polizia; infine, lo psicologo Ståle Aune, che ha aiutato Harry più volte a entrare nella mentalità del colpevole: ricoverato per un cancro terminale, non c’è nulla che vorrebbe fare se non dare una mano un’ultima volta.
E, via via che le prove si accumulano, risulta chiaro che la vicenda è molto più intricata di quanto sembri: trovare il colpevole diventa per Hole una questione personale.

Anche in questo tredicesimo romanzo della serie di Harry Hole, non mancano colpi di scena, molti personaggi e diverse prospettive, vicoli ciechi nelle indagini e alcune trame secondarie che arricchiscono l’intera vicenda.
Vari riferimenti musicali e dialoghi, che si inseriscono in modo coerente nel flusso narrativo. La tensione si mantiene alta e non mancano descrizioni crude ed esplicite di violenza che sono state oggetto di critiche, così come alcuni tratti stereotipati del protagonista.

Ma è lo stesso Nesbø a considerare Harry Hole:

"Un cliché del romanzo poliziesco in molti modi: un uomo alcolizzato e solo che ha un problema con le figure autoritarie".

Ma queste percezioni forti, il confronto con le pulsioni più distruttive e un antieroe di cui conosciamo tratti inediti, di sicuro, non tradiscono le aspettative dei lettori più fedeli e appassionati.

La notte in cui lei scomparve - Lisa Jewell

(tratto da ilmanifesto.it)

Upfield Common è poco più di un villaggio immerso nelle campagne del Surrey, nell’Inghilterra meridionale. Poche case modeste, qualche magione storica, boschi e uno stagno profondo. Solo l’esclusivo collegio di Maypole House, che attira rampolli delle famiglie ricche anche da Londra con la promessa di far superare gli esami finali anche agli alunni meno dotati, ha reso nota questa località oltre i confini della regione. E proprio l’ambigua convivenza tra gli abitanti della zona e i loro figli da un lato, e i giovani-bene arrivati per frequentare l’istituto, mostrerà tutte le proprie crepe dopo la scomparsa di Tallulah e di Zach, due fidanzati diciannovenni con un figlio di pochi mesi. Sarà la madre della giovane, Kim, decisa a scoprire che fine ha fatto sua figlia, a rivelare come intorno ad una delle ricche ragazze della scuola, Scarlett, che vive in una vecchia magione nobiliare della zona (Dark Place), separata dal villaggio da un fitto bosco, si sia costruito un clima misterioso e che fa intravedere l’ombra di segreti inconfessabili.

Con La notte in cui lei scomparve (Neri Pozza, traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani), Lisa Jewell conferma le doti che l’hanno resa, romanzo dopo romanzo, una delle protagoniste del noir e del thriller britannici. Una ventina di titoli all’attivo, di cui una mezza dozzina già proposti ai lettori italiani da Neri Pozza, Jewell indaga con grande maestria le paure quotidiane, il senso di smarrimento che è pronto a fare capolino nelle nostre esistenze quando qualche certezza sembra sul punto di andare in pezzi, il sottile e contraddittorio confine di classe che definisce spesso il rapporto con gli altri suscitando rancori, risentimenti o anche vero e proprio odio.

Le sue storie sembrano ispirarsi alle paure che accompagnano la vita quotidiana di tutti noi, o alla possibilità che qualcosa in un percorso apparentemente ordinario possa andare storto. Come nascono questi romanzi e da quale idea di paura muove il suo interesse per una storia piuttosto che per un’altra?
Ciò che scrivo nasce spesso dallo sguardo fugace di una persona che cattura la mia attenzione o suscita il mio interesse, voglio capire di chi si tratta, come è arrivato lì e come potrebbero reagire in una determinata situazione. A volte, però, i miei romanzi nascono anche da un luogo particolare: un collegio e un tipico villaggio inglese con tanto di salici piangenti e anatre nello stagno nel caso di La notte in cui lei scomparve. Amo stravolgere l’immagine abituale di posti del genere, indagarla per mostrare tutta l’oscurità che si nasconde sotto la facciata. Ma soprattutto, sì, è vero, scrivo delle paure che vivono dentro di noi, della casualità della vita, del modo in cui tutti conoscono dei momenti che potrebbero distruggere le loro esistenze.

Nel nuovo romanzo, come del resto nei precedenti, la narrazione è costruita a più voci: c’è il punto di vista di una giovane scomparsa come di chi continua a cercarla e via dicendo. Un modo per immergere il lettore in una sorta di spirale dalla quale è difficile uscire o anche per mettere in discussione tutto ciò che appare a prima vista plausibile, normale, conosciuto?
Scrivere rappresenta da molti punti di vista un ottimo modo per condividere con i lettori un contesto generale, articolato e, allo stesso tempo affinare via via la propria visione di autore rispetto a ciò che sta realmente accadendo nella storia. Detto questo, trovo stimolante sia raccontare le cose dal punto di vista di un solo personaggio, visto che non uso un piano prestabilito per scrivere e ho bisogno che le diverse figure mi indichino in qualche modo cosa sta avvenendo, sia far incrociare lo sguardo dei diversi protagonisti. Trovo divertente giocare con la percezione di ciascuno, mettere in scena il modo in cui due persone possono vedere gli stessi eventi in forme completamente diverse l’uno dall’altro. Del resto è esattamente così che accade nella vita.

Come già in «La famiglia del piano di sopra» (Neri Pozza), sebbene in scala diversa visto che in quel caso emergeva l’eco di una setta e dei suoi segreti, anche nel nuovo romanzo torna la sensazione che si possa venire facilmente manipolati da chi ci attrae o verso cui nutriamo dei sentimenti anche profondi. Una trappola, e un rischio, cui siamo tutti esposti?
Mi sono trovata letteralmente intrappolata in un matrimonio per oltre vent’anni, accanto ad un uomo molto carismatico che mi ha prima «bombardato» con l’amore e poi ha cercato di controllarmi. Per questo credo di poter dire quanto sia terribilmente facile per una persona lasciarsi in qualche modo manipolare da un’altra. E sono convinta che si tratti di un tema su cui continuerò a tornare nei miei romanzi, perché è un argomento ad un tempo interessante e sinistro da esplorare e che contiene così tante zone d’ombra.

Nel nuovo romanzo, ragazze e ragazzi poco più che adolescenti sono a un tempo vittime e carnefici e usano la loro fragilità e la loro presa sugli altri per molti scopi. Oltre ad uno sguardo rivolto ai meccanismi famigliari, nel suo approccio al tema c’è anche un qualche rimando a fatti di cronaca?
Vivo con due figlie adolescenti e ho un ricordo molto netto di quando lo ero io stessa, sento un profondo legame con quella parte di me e perciò sono molto vicina alle mie ragazze. Per questo, spesso nel mio lavoro emerge il punto di vista degli adolescenti. Trovo interessante che si tratti di persone non completamente formate, che la loro bussola morale non sia fissata saldamente e che possano ancora cambiare dall’oggi al domani, correre dei rischi e vedere il mondo in modo fluido. In questo libro, Tallulah ne è un perfetto esempio: per molti versi è cresciuta, ha un figlio e una relazione e sa dove sta andando, ma è chiaro che sta ancora cercando di capire chi è veramente e può essere manipolata dagli altri. Quanto ai fatti di cronaca, tendo a non fare troppo riferimento ad essi: i libri sono troppo lenti per stargli dietro.

Pur presentandosi soprattutto come delle esplorazioni psicologiche, i suoi romanzi sono spesso attraversati dall’ombra del conflitto tra le classi, come accade in questo caso dove è palese il senso di estraneità e minaccia che i giovani ricchi riuniti intorno a Scarlett incarnano per la comunità del piccolo centro del Surrey dove si svolge la storia. I confini sociali sono ancora molto netti in Gran Bretagna?
Non sempre scrivo delle differenze di classe, ma in La notte in cui lei scomparve volevo davvero occuparmene. Gli attuali villaggi inglesi rappresentano un’evoluzione degli antichi feudi: i proprietari terrieri costruivano delle piccole case dove viveva il personale che impiegavano o dare in affitto a chi gestiva le infrastrutture locali. Tutti nel villaggio erano in qualche modo legati al signore del maniero. Al giorno d’oggi le magioni nobiliari sono ancora in piedi, ma non c’è alcun legame tra le persone che vi abitano e quanti vivono nei villaggi circostanti. Sopravvive però la divisione tra «noi» e «loro», vale a dire ciò che emerge nella storia: le ragazze adolescenti del posto lavorano nel minimarket dove si serve la loro coetanea che abita nella casa padronale e il giovane uomo del pub che sogna di fare l’attore versa pinte di birra ai ragazzi ricchi che frequentano l’esclusivo collegio locale. I legami che hanno costruito il sistema di classe in Gran Bretagna sono quasi scomparsi, ma ciò che resta evidente è questo profondo divario.

Case, ville, appartamenti, i luoghi in cui vivono i protagonisti hanno sempre un ruolo in ciò che accade nei suoi romanzi. In «La notte in cui lei scomparve» c’è una magione che sorge in un luogo chiamato Dark Place, che sembra tutto un programma… C’è un’ampia tradizione di «case abitate» nel romanzo gotico e nella letteratura romantica britannica. Lei cosa cerca in questi luoghi?
Le persone si comportano in modo diverso dietro la porta della propria casa. Le case sono spesso l’unico luogo in cui si sentono veramente «se stesse» e quindi rappresentano una componente importante per qualsiasi thriller psicologico. Quando immaginavo una casa dove far vivere Scarlett, avevo già deciso di organizzare una festa in piscina da lei e quindi sapevo di aver bisogno di una casa di grandi dimensioni, le uniche che da noi hanno una piscina. Ed è stato solo mentre Kim stava risalendo il vialetto verso quella magione per cercare di ritrovare sua figlia che ho visto comporsi nella mia mente la reale estensione di quella villa. Non mi aspettavo che avesse proprio quell’aspetto, ma è stato come se un fiore fosse sbocciato nella mia testa, stanza dopo stanza, diventando sempre più grande e evidente. Mi piaceva l’idea di tutto quello spazio sprecato, Scarlett lasciata sola a vagare per stanze vuote, trascurata e solitaria, il tutto in netto contrasto con la sua «popolarità» fuori da quella casa. Ecco che il luogo in cui vive serve a rivelare una qualche verità su quella persona.

Figli della favola - Fernando Aramburu

Figli della favola (Guanda) racconta una gioventù senza prospettive, persa e abbondonata che non può sostenere il peso che grava su di sé, che finisce con l’essere inghiottita dalla ricerca di un’appartenenza che gli fornirà solo i mezzi per sopravvivere e mai per vivere.

Due ragazzi ventenni, abbandonati dalla società e dalla patria, credono di avere in mano la soluzione per l’indipendenza del popolo basco. Ma quando si dichiarano pronti a combattere, l’organizzazione politico-militare di cui fanno parte, l’ETA, depone le armi. Il sogno di ritornare alla lotta armata e alla guerriglia si scontra con l’evidenza di una realtà squallida: Ansier e Joseba, protagonisti del nuovo romanzo di Aramburu, vengono abbandonati come rifugiati senza alternative.

Aramburu descrive la loro sopravvivenza e il loro rapporto con uno stile schietto e un’ironia cruda che evidenziano la drammaticità della loro condizione e degli ideali di rivolta che vengono rinchiusi e costretti tra mura fredde e solitarie. I due protagonisti si fanno portatori di due visioni del mondo molto differenti: Ansier, più rude e solitario, vede nella lotta armata lo strumento di rivalsa nei confronti di una vita che percepisce sprecata; Joseba è combattuto fra la volontà di tornare dalla famiglia e la necessità di sentirsi parte di qualcosa. Il punto nevralgico del romanzo è proprio la mancanza di una comunità e di una patria, da cui consegue l’impossibilità di trovare il proprio posto all’interno della società.
Al di fuori della lotta non c’è vita: questo è stato insegnato ad Ansier e Joseba, che ora infatti assistono apatici a giorni sempre uguali e senza senso tra solitudine, povertà e inebriamento ideologico.
Agire o non agire?
Il dilemma li affligge finché, mossi dalla volontà di ritrovare un senso alla loro esistenza, decidono di creare una propria organizzazione di rivolta, il “commando Tarn”. Come i giovani disillusi che provano a trovare un loro posto nel mondo, cercano di creare una personale indipendenza al di là di quella “forzata” che gli ha fornito l’ETA.
Uscendo dal rifugio, l’altrove è molto più ostile di quello che si ricordavano.
Nel loro viaggio verso Tolosa, Aramburu sottolinea ed evidenzia più volte la loro decontestualizzazione rispetto a tutto ciò che li circonda. Non sono accettati dalle persone che incontrano e sono spesso costretti a scappare da situazioni che li potrebbero mettere in pericolo. Arrivati a Tolosa riescono a trovare una loro momentanea appartenenza e coscienza di sé, tramite la nuova organizzazione GDG che resterà però solo con due membri anche se organizzata con aiuti esterni.

Fernando Aramburu Irigoyen (San Sebastián, 1959) è uno scrittore, poeta e saggista spagnolo.

Scrittore basco, compie gli studi di Filologia ispanica all’Università di Saragozza.

Insegna per alcuni anni spagnolo in Germania e comincia a dedicarsi alla scrittura spaziando nella sua vasta produzione dai romanzi e i racconti alle poesie, i saggi e i libri per ragazzi.

La sua ultima opera, Patria ha ricevuto il prestigioso Premio de la Crítica 2016, il Premio Nazionale di Letteratura per la Narrativa di Spagna 2017 e, nel 2018, il Premio Strega Europeo e il Premio letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Opere:

Fuegos con limón (1996)
Los ojos vacíos: Trilogía de Antíbula 1 (2000)
Il trombettista dell'Utopia (El trompetista del Utopía, (2003)
Bami sin sombra: Trilogía de Antíbula 2 (2005)
Viaje con Clara por Alemania (2010)
Anni lenti (Años lentos, 2012)
La gran Marivián: Trilogía de Antíbula 3 (2013)
Ávidas pretensiones (2014)
Patria (2016)
I rondoni (Los vencejos) (2020)
Figli della favola (2023).

Il passeggero - Cormac McCarthy

La notizia, all’inizio del 2022, dell’uscita di ben due nuovi romanzi di Cormac McCarthy ha inevitabilmente generato grandi aspettative tra i lettori che da ormai sedici anni – tanti ne sono passati dalla pubblicazione di La strada – attendevano l’arrivo del favoleggiato libro al quale lo scrittore americano aveva cominciato a lavorare negli anni Ottanta. Considerato da Harold Bloom il vero erede di Shakespeare e di Melville, il quasi nonagenario decano della letteratura statunitense ha ampiamente ripagato le attese, regalandoci un dittico che è in realtà una summa della sua opera, nonché una profonda meditazione sulla natura della realtà, della psiche, dell’arte e, in definitiva, del senso della nostra esistenza terrena e della sua inevitabile conclusione. Il passeggero (traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi pp. 388) e Stella Maris (programmato per settembre) sono due romanzi «fratelli», separati alla nascita e leggibili singolarmente, che offrono due prospettive diverse sulla stessa storia.

Chi si aspettava un thriller sulla falsariga di Non è un paese per vecchi o la violenza di Meridiano di sangue rimarrà deluso: nel Passeggero l’orrore è soprattutto metafisico, mentre l’astrattezza linguistica ricalca l’indecifrabilità della meccanica quantistica. È un’opera estremamente ambiziosa, che non teme di porsi grandi domande esistenziali per mezzo di una prosa densa e tuttavia rarefatta, quasi intossicante, che si avvale di periodi polisindetici –attraverso una sequela di conversazioni: quasi dialoghi filosofici, che fanno emergere una volta di più la centralità dell’interrogativo epistemologico nella poetica di McCarthy. Il suo interesse per la scienza e la filosofia sono noti fin dagli anni Ottanta, quando cominciò a collaborare con il Santa Fe Institute (New Mexico), istituzione dedicata alla ricerca scientifica all’avanguardia, soprattutto in un’ottica interdisciplinare. Proprio tra le mura di quel prestigioso istituto, McCarthy ha scritto e portato a termine i due suoi ultimi libri.

Al centro del romanzo, due fratelli, Bobby e Alicia Western, figli di un fisico nucleare che ha lavorato al Progetto Manhattan e di una donna di origini ebraiche – generati letteralmente dalle catastrofi del ventesimo secolo, la bomba e l’Olocausto. Entrambi padroneggiano i segreti della matematica, ma nonostante sia affetta da una forma di schizofrenia paranoica o di autismo che nessun test psichiatrico riesce a classificare, la geniale Alicia è assai più brillante del fratello maggiore. Durante l’adolescenza lavora con importanti matematici e fisici come Nash, Feynman e Grothendieck, ma dopo la tesi di dottorato (che nell’ultimo capitolo arriva a confutare la natura stessa della fisica) abbandona gli studi, persuasa che nemmeno la meccanica quantistica sia in grado di spiegare l’essenza della realtà.

All’inizio del romanzo, ambientato negli anni Ottanta, Bobby è impegnato a esplorare il relitto di un aereo inabissatosi per cause sconosciute; la scatola nera non si trova e, cosa ancora più strana, i passeggeri deceduti sono seduti ai loro posti – tutti tranne uno, di cui non c’è traccia. Nella loro indecifrabilità, questi elementi sembrano indirizzare la trama verso il mystery, ma scopriremo ben presto che trattasi di falsi indizi – mise en abyme del nucleo del testo, vuoto come il sedile del misterioso passeggero.

Anche la vita di Bobby è condizionata da una dolorosa assenza: il romanzo si apre infatti con la scoperta del corpo senza vita di Alicia, impiccatasi il giorno di Natale. Da allora Bobby convive con un profondo senso di colpa, convinto com’è di aver causato indirettamente la morte della sorella, da sempre innamorata di lui. Nel poco tempo libero frequenta bar e locali malfamati di New Orleans, dove incontra una variopinta cricca di squinternati, reietti e imbroglioni (che rimandano alle atmosfere di Suttree, il romanzo vagamente autobiografico licenziato da McCarthy nel 1979); solo ascoltando le loro storie, Bobby riesce a colmare temporaneamente il vuoto che lo perseguita.

Le sue vicende si alternano a capitoli più brevi, scritti in corsivo, che riportano le conversazioni tra Alicia e un altrettanto variegato gruppo di intrattenitori e cabarettisti guidati dal grottesco Talidomide Kid, «il cranio glabro abraso dalle cicatrici forse procurate al momento della sua inimmaginabile creazione. Le buffe scarpe a forma di remi che calzava. Le pinne da foca aperte sui braccioli della poltrona». Frutto di allucinazioni con cui la ragazza dialoga sin da quando ha avuto il primo ciclo mestruale, queste strane presenze servono a McCarthy per portare il suo testo a superare l’illusoria separazione tra mente e corpo, res cogitans e res extensa – o, se vogliamo, tra realtà e immaginazione. Uno degli interrogativi impliciti nel titolo del romanzo è, infatti, se il cervello possa considerarsi «passeggero» del corpo, o se viceversa la realtà fisica non sia una «allucinazione controllata» generata dalla psiche – come sembrano indicare le più recenti teorie delle neuroscienze.

All’esplorazione del relitto subacqueo nel Passeggero fanno da contraltare in Stella Maris le conversazioni tra Alicia e il suo psichiatra, intento a scrutare gli abissi mentali della ragazza: entrambi i romanzi si costituiscono, dunque, come missioni immersive di salvataggio. Le allucinazioni sembrano voler proteggere la mente di Alicia da se stessa, allontanando l’idea del suicidio e fornendole una forma di intrattenimento-distrazione-blocco protettivo. La sua «colpa» originaria è la hybris che l’ha spinta a cercare di oltrepassare i limiti dell’umana conoscenza. All’osservazione di Alicia – «Stavo bene prima che arrivaste» – Talidomide Kid risponde nella sua prosa irriverente, spesso volgare, ironica e allusiva ma pur sempre affettuosamente sbrigativa e a tratti farneticante – forse la più grande invenzione di quest’«ultimo» McCarthy, resa in modo eccezionale nella traduzione di Balmelli: «Certo che sei proprio un bel tipo. Lo sapevi? Guarda, te lo metto per iscritto. Come disse il puttaniere muto alla battona. Figli delle tenebre, sbavanti e degenerati, e lei che fa? Prova a guardare oltre le loro spalle».

Alicia, proverbiale nano sulle spalle di giganti, sembra essersi prematuramente imbattuta nel cuore oscuro dell’esistenza, quell’«Archatron» che regna al centro dell’universo (l’espressione, coniata da McCarthy, compariva già in Città della pianura senza ulteriori spiegazioni e ritornerà in Stella Maris) – un’entità inscrutabile e maligna, che forse ha inviato i propri emissari a «bloccare» o depistare la mente suscettibile di sconfinamenti.

Quasi a sottolineare la specularità delle esperienze dei due protagonisti, non appena Bobby comincia a investigare sul mistero del passeggero scomparso riceve la visita minacciosa di alcuni sconosciuti (forse agenti dell’FBI) che lo costringono a entrare in clandestinità e ad allontanarsi dai suoi cari. Sia Bobby sia Alicia vengono distolti dalle loro quest (così come accade al lettore che cerca una soluzione agli enigmi del testo) e forse anche questo è uno scopo dell’immaginazione, e in definitiva, dell’arte: salvarci da noi stessi, intrattenerci e «distrarci» per rimandare il momento – tutt’altro che risolutivo – della fine. Non sarà un caso se anche il protagonista di Meridiano di sangue – che tentava di arginare l’opera distruttrice del satanico giudice Holden – era chiamato semplicemente «the Kid».

Che Il passeggero costituisca un congedo dell’autore dai propri personaggi, svaniti assieme a un mondo in cui la letteratura era ancora in grado di contare, diventa chiaro in uno dei passaggi più struggenti del libro, quando Long John, truffatore spiantato a capo della cricca di New Orleans, rassicura il suo amico Bobby sulla loro comune esperienza: «Ti conosco. Conosco certi tuoi giorni d’infanzia. La solitudine quasi da piangere. La scoperta di un certo libro in biblioteca. Stringerlo al petto. Portarselo a casa. Un posto perfetto per leggerlo. Magari sotto un albero. Accanto a un ruscello. Gioventù bacata certo. Preferire un mondo di carta. Reietti. Ma noi conosciamo un’altra verità, dico bene messere? E ovviamente è vero che una gran quantità di quei libri fu scritta al posto di incenerire il mondo – che era il vero desiderio dell’autore. Ma in realtà la domanda è: siamo gli ultimi del nostro lignaggio? Albergherà, nei bambini futuri, una nostalgia di qualcosa che non sapranno nemmeno nominare?».

Quel che ci tiene vivi - Mariapia Veladiano

(tratto da itquotidiano.it)

Mariapia Veladiano, vicentina, laureata in filosofia e teologia, insegnante, dirigente scolastica anche in Trentino, è una romanziera famosa in Italia e all’estero. Il suo primo romanzo, La vita accanto, dal quale il regista Marco Tullio Giordana ha tratto il soggetto per il suo ultimo film attualmente in lavorazione, dodici anni fa ha vinto il Premio Calvino ed è arrivato secondo al Premio Strega. Poi ne ha scritti molti altri, tutti connotati da quegli elementi personologici e poetici che latitano in modo bruciante e avvilente nel nostro tempo: la capacità di ascolto, la disponibilità a sintonizzarsi, il culto di una bellezza autentica e specifica contrapposta al glamour e alla banalizzazione tribale e volatile, la profondità e uno sguardo capace di coltivare sempre la speranza e la riparazione possibile delle cose della nostra vita.

Mariapia Veladiano, lei è diventata famosissima con il suo primo romanzo «La vita accanto»: duecentomila copie vendute, tradotto in un’infinità di Paesi… L’avevo letto e mi era piaciuto, ma il mio interesse per lei nacque quando lessi il suo secondo romanzo, «Il tempo è un Dio breve»: per me, agnostico, la storia di questa donna cattolica che crede suo figlio sia destinato a morire e intraprende un violentissimo faccia-a-faccia con Dio è stata sconvolgente: non avevo più pensato a Dio da quando avevo dieci anni…

«Perché il male del mondo? È l’unico tema serio per chi crede in un Dio che ama la vita. Ci sono biblioteche di trattati teologici che cercano una risposta e spesso è stata una risposta indecente, che non tiene conto davvero del dolore di chi perde un bambino, un affetto. I romanzi possono di più. C’è più teologia nei romanzi che in tanti trattati perché la teologia ha sempre un poco la pretesa di chiudere il cerchio della domanda, di dare una risposta coerente con la dottrina, mentre il romanzo può rispettare il mistero di una vita che è colpita, si interroga, si dà sì risposte, ma piccole risposte senza pretese di universalità, che però permettono comunque di continuare a sperare. “Il tempo è un Dio breve” ha provato questa strada. Ildegarda madre colta, libera, interrogante, si dà una risposta che passa attraverso il corpo e che però rimane sospesa fino alla fine. Non chiude il cerchio. Non è una verità da credere o da condannare. Vuol dire prendere sul serio il mistero».

Lei ha insegnato per trent’anni ed è stata dirigente scolastica anche in Trentino. Ha descritto il mondo dei piccoli in un saggio, per la verità molto poetico, «Parole di scuola», che riesce a far focalizzare il lettore sugli aspetti che spesso passano sottotraccia perché si trovano in piena luce con la loro superficie e occultano il mondo di tensioni, sofferenze, ambivalenze che c’è sotto e che dovremmo imparare a tenere presente.
«Lavorare nella scuola è un privilegio. Si è dentro a una grande esperienza di comunità che può meravigliosamente funzionare. E se funziona i ragazzi e le ragazze escono con la bella sicurezza di poter abitare lo stesso mondo senza che sia una giungla in cui si sopravvive solo affilando gli artigli. Perché la scuola, pubblica, riceve il mondo senza selezionarlo e quando trova il modo di non lasciare indietro nessuno, diminuire le disuguaglianze, attivare attitudini collaborative, allora l’eccellenza tanto divisiva è solo il nome vero di una qualità diffusa, che interessa tutti i ragazzi. Ma è un lavoro.

Bisogna andare controvento, è una parola che uso da sempre, perché oggi la scuola è terreno di scontro, è strumento di privilegio, è il raccoglitore delle nostre paure di adulti che vedono il futuro dei figli sotto il segno della precarietà. I ragazzi sono avvolti di paura invece che di fiducia. È durissimo per loro vivere così, ma gli adulti siamo noi e bisogna essere consapevoli e cambiare».

Il suo ultimo romanzo appena uscito, «Quel che ci tiene vivi» (Guanda, 2023), l’ho trovato prezioso e mi ha fatto ripensare a «Libertà» di Franzen, un romanzo che mentre si legge induce insofferenza, rabbia, addirittura odio per alcuni personaggi ma che poi, una volta finito, quei personaggi ce li fa sentire familiari, degni perlomeno di comprensione. I suoi personaggi invece, in realtà, ci parlano della possibilità di sopravvivere ai traumi trovando la forza e la propensione ad «aggiustare» per quel che si può il nostro mondo…

«Raccolgo storie di persone ferite che però vogliono vivere, come tutti. Qui c’è un giovane avvocato sgarrupato che mangia troppo, beve troppo, rifiuta i clienti. Ma c’è il perché e non sempre il perché è, come dire, rimediabile. La sua famiglia sciagurata non ha rimedio, e allora ecco, nei romanzi vado a spigolare aggiustamenti possibili, riparazioni. Si impara con i bambini, questo. Cioè che sempre i comportamenti per quanto estremi hanno una ragione d’essere e che molto spesso si può operare qualche riparazione. Sono questi i miei romanzi, fin dal primo, la storia di Rebecca bambina brutta. In “Quel che ci tiene vivi” lui non diventa ottimista e virtuoso, però impara l’arte di salvare il bambino che una notte si trova davanti, che non vuole davvero vedere, che cerca di evitare. Eppure. Non è questione di ottimismo.

È che i romanzi cercano di offrire uno sguardo non scontato sulla realtà. Creare un percorso emotivo che possiamo riconoscere vero anche se non ci abbiamo mai pensato. Qui c’è come sempre il grande tema della famiglia. Che cosa è davvero famiglia? Naturalmente c’è una donna, Bianca, psicoanalista che bizzarramente si innamora di lui e deve imparare a camminare sul filo teso fra il suo lavoro di cura e l’amore. E poi c’è la provincia, che fa finta di non vedere eppure sa tutto quello che accade. È sempre così. Quando capita qualcosa di tremendo c’è uno che fa e ci sono dieci che non vedono. In un mondo omissivo, quel che conta è imparare a vedere, sempre. E nel romanzo gioco ancora una volta il tema dell’essere visti per salvarsi, del vedere per salvare».

Tre ciotole - Michela Murgia

A quindici giorni dalla pubblicazione dell’intervista al Corriere della Sera in cui ha parlato della sua malattia (“Ho un tumore al quarto stadio… dal quarto stadio non si torna indietro”) torna su Bibliolandia Michela Murgia, con un “romanzo fatto di storie che si incastrano“.

Nei dodici racconti del libro, come ha spiegato la stessa autrice, non mancano riferimenti autobiografici. A partire dal primo, Espressione intraducibile, che pubblichiamo su ilLibraio.it, e in cui la diagnosi a cui si fa riferimento, “carcinoma renale al quarto stadio“, è esattamente la sua.

I personaggi di Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori) stanno attraversando un cambiamento radicale, che costringe ciascuno di loro a forme inedite di sopravvivenza emotiva.

Ci sono infatti circostanze che possono cambiare la realtà in un istante, eventi inaspettati che creano una linea netta tra il prima e il dopo. I momenti di crisi coinvolgono chiunque e possono essere legati a diverse cause: un abbandono, un lutto, la perdita del lavoro o la scoperta di una malattia…

Michela Murgia, che come autrice ha esordito nel 2006 con Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, e che nel 2010 ha vinto il Premio Campiello con Accabadora (Einaudi), è protagonista in tv, sui social, a teatro e in radio, ed è anche autrice, insieme a Chiara Tagliaferri, del podcast Morgana, con cui ha scritto due libri: Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (Mondadori, 2019) e Morgana. L’uomo ricco sono io (Mondadori, 2021).

Tra le sue opere, Ave Mary (2011), Chirù (2015), Istruzioni per diventare fascisti (2018), Stai zitta (2021) e God Save the queer. Catechismo femminista (2022).

«Lei ha una nuova formazione di cellule sul rene.»
Il medico parlava con tono così lieve che per un istante lei pensò che l’annuncio fosse qualcosa di cui rallegrarsi. A causa della mascherina bianca, di quell’uomo gentile sulla sessantina vedeva solo metà del volto e nei primi minuti della visita aveva creduto che fosse la metà giusta. Ora non ne era più così sicura. Oltre il paravento di plexiglas che sulla scrivania offriva a entrambi ulteriore protezione dal virus onnipresente, gli occhi del dottore la sfuggivano al punto che non riusciva a dirne con certezza il colore. Per ripicca cercò a sua volta di rendere il viso illeggibile. Dalle finestre ampie dell’ospedale di Monteverde entrava una luce galvanica che nel pieno del giorno splende con quella forza solo su Roma. Era convinta che a emanarla fossero le braci segrete dell’impero, quello vero, ancora covanti sotto alle rovine di tre civiltà troppo più deboli per spegnerle del tutto. In quel- la luce si sorrisero cauti e il medico, forse illuso di essere stato capito, continuò.

«In termini tecnici si chiama neoplasia perché vuol dire proprio “nuova formazione di cellule”.»

Il gruppo sillabico 암 si illuminò nella mente di lei come un lampo e il sorriso perse smalto. Non conosceva l’etimologia, ma cos’era una neoplasia lo sapeva persino in coreano. Si sistemò nervosamente intorno al corpo le pieghe del cappotto di couture, in un istintivo gesto di protezione. Per quella visita si era vestita in modo progettuale, solo stilisti di prima fascia, ma sobria, non come a un appuntamento galante, piuttosto come andasse a impressionare una donna ricca da tre generazioni, a negoziare un contratto prestigioso dando a intendere che non ne avesse bisogno, a farsi rispettare. Aveva un armadio costruito per quello scopo, un deposito di armi di buon taglio e firma evidente, una per ogni guerra da cui non si sarebbe potuta permettere di uscire perdente. Qualunque cosa avesse quest’uomo in camice da dirle, voleva che fosse consapevole sin da subito che lei non era una persona qualunque e dunque quella neoplasia non poteva essere routine nemmeno per lui, perché non era sorta su un corpo a caso.

L’oncologo non sembrava però molto impressionato. Pur avendo davanti la sua cartella clinica, non accennò ad aprirla. Si avvicinò invece al petto un blocco note che aveva in un angolo il logo di un colosso farmaceutico, ne strappò un foglio e lo voltò. Con una penna disegnò un groviglio e da lì fece diramare delle linee ondulate che confluivano tutte nella stessa direzione, qualche centimetro più in là. Continuava a parlare con lentezza, senza staccare gli occhi dal foglio, misurando ogni parola sul tracciato della penna. Lei ebbe l’impressione che non fosse la prima volta che faceva quello schema e le sue ambizioni di essere una paziente speciale si disfecero. Quanti altri corpi erano stati quelle linee? Quante esistenze quel groviglio?

«Come tutte le cose vive nascenti, la sua formazione nuova ha bisogno di risorse e se le è andate a cercare nel polmone sinistro. Noi le chiamiamo metastasi, ma lei se le deve immaginare come pozzi di petrolio in Iraq.»

“Noi le chiamiamo”, aveva detto. Noi chi, pensò lei, immaginandosi un’assemblea permanente di saggi che da qualche parte nel Grande Castello dell’Oncologia stabiliva la nomenclatura dei disastri che succedevano nel corpo degli esseri umani di tutto il mondo. Il medico fermò la traccia dell’ultima linea all’altezza delle altre e le cauterizzò tutte con un piccolo asterisco. Il gesto le fece un male quasi fisico, ma cercò di non darlo a vedere. Per qualche ragione che le sfuggiva, avvertiva l’istinto di dover essere lei a rassicurare lui. Una breve risata nervosa le sembrò adatta a incoraggiare la sua spiegazione geopolitica. La mano dell’oncologo, cinta da un polsino di buon cotone azzurro che sbucava dal candore del camice, era pallida ma ferma dall’altro lato del plexiglas. Durante la prima parte della visita l’aveva sentita calda a contatto della pelle e così le sembrava che fosse ancora sulla penna, mentre la vedeva tracciare sulla carta i segni a cornice del bozzetto rudimentale dei suoi organi interni compromessi.

«Il primo dei farmaci che prenderà è quotidiano, due compresse mattina e sera, e serve a chiudere questi pozzi: senza risorse si diventa deboli… lei capisce.»

Il medico staccò lo sguardo dalla carta e stavolta la guardò dritta negli occhi. Lei capiva.

«Il secondo farmaco è una flebo endovena che dovrà fare ogni ventun giorni e che ha la funzione di risvegliare il suo sistema immunitario affinché reagisca verso le cellule della nuova formazione, impedendo che continuino a svilupparsi.»

«È una chemio?»

«Non perderà i capelli, se è quello che la preoccupa.» No, non era quello che la preoccupava. La sillaba 암 e il suo suono – AM – continuavano a pulsarle nella mente come l’insegna al neon di un kebabbaro.

«Lei farà un’immunoterapia a base di biofarmaci. Come le ho mostrato, non è direttamente rivolta alla neoplasia. Serve a suscitare la risposta naturale del suo organismo. Se il rene non ci dà noia, non c’è ragione di dargliene noi.»

Noi chi, pensò di nuovo lei, immaginando stavolta loro due a condividere la stessa neoplasia, asserragliati in quella stanza mentre tutte le linee di quel groviglio disegnato sul foglio cercavano di farsi strada tentacolari sotto la porta e nelle fessure degli infissi per raggiungerli e succhiare le loro risorse. Suo malgrado, l’immagine la fece sorridere, ma l’effetto dovette essere quello di un animale che mostra i denti a un avversario, per- ché il medico non ricambiò. Gli fece la domanda più ovvia, quella stupida.

«Dove ho sbagliato?»

Era vegetariana. Non fumava, esclusa l’erba in rara compagnia. Beveva roba talmente selezionata che il signor Bernabei la salutava giulivo dalla soglia dell’enoteca anche quando non entrava. I vizi che aveva erano parecchi, ma nessuno nel corpo, facilmente bonificabile con la privazione. La colpa si nascondeva da qualche altra parte, se non nelle opere almeno in pensieri, parole e omissioni. Il medico rimase silenzioso per qualche secondo, spiazzato da quella richiesta di giudizio. Quando posò la penna lei scambiò il gesto per una resa.

«Siamo esseri complessi, signora… non credo si possa definire la questione in termini di sbagli suoi. Gli organismi sofisticati sono più soggetti a fare errori. È il sistema che ogni tanto si ingarbuglia, la volontà non c’entra.»

Lei chiuse gli occhi. Non voleva che le leggesse in faccia il bisogno di dar la colpa a sé stessa o a qualcosa, a qualcuno, a un comportamento estremo, un cibo spazzatura, una brutta abitudine durata troppo a lungo, un trauma irrisolto, l’inquinamento da traffico della città, un’industria vicina, la maledizione di un nemico, tutto e tutti tranne l’ipotesi insopportabile dell’incidente statistico. In qualche modo però il medico sembrò capirlo.

«Mi ha detto che scrive romanzi, un bellissimo lavoro, ma è molto complicato. Nessuna specie in natura lo sa fare, solo gli esseri umani. Conosce altre lingue oltre l’italiano?»

«L’inglese, il francese, più o meno lo spagnolo… Sto studiando il coreano.»

«Preferirebbe non saper fare nessuna di queste cose a patto di non ammalarsi mai? Gli organismi unicellulari non sviluppano neoplasie, ma non imparano lingue. Le amebe non scrivono romanzi.»

Si guardarono per un tempo che a entrambi parve lunghissimo, durante il quale lei ebbe la certezza che, al contrario del Risiko iniziale fatto di nuove colonie avide di pozzi iracheni, quelle specifiche parole l’oncologo le avesse trovate solo per lei. Fino a pochi minuti prima aveva avuto mille domande. Questioni su quanto sarebbe stato lungo il combattimento che stava per affrontare. Se aveva qualche possibilità di vincerlo. Quanto tempo aveva per lottare. Voleva gli estremi dello scontro, il piano militare. Ma l’inadeguatezza del registro bellico, quello con cui aveva sempre sentito de- finire il rapporto con una malattia mortale, ora la ammutoliva. Era colpa del medico, ovviamente. Le paro- le che quell’uomo aveva usato cambiavano lo scenario simbolico e la costringevano a muoversi verso un obiettivo che non le era familiare: il patto di non belligeranza. Quello che doveva essere un avversario da distruggere le era appena stato dipinto come un complice della sua complessità, una parte disorientata del suo corpo sofisticato, un cortocircuito del sistema in evoluzione, niente di più di un compagno che sbagliava. Non era abituata a perdere a parole. Qualunque battaglia avesse immaginato di fare alla malattia, ora suonava come un progetto autolesionista. Di far guerra a sé stessa non aveva voglia né forze.

«Non l’avevo mai vista in quest’ottica, in effetti. Immagino che se l’alternativa fosse la vita dell’ameba, non mi interesserebbe far cambio. Mi dica quindi: cosa devo fare per correggere questo errore di sistema.» Esitò un attimo, poi aggiunse: «Se si può».

Gli occhi del medico si accesero a quel cambio di registro e il suo corpo apparve più rilassato. Si appoggiò alla sedia. Probabilmente credeva di aver superato il passaggio più problematico del colloquio.

«Le preparerò l’ordine dei farmaci e dovrà ritirarli alla farmacia ospedaliera, ma intanto deve firmare questa liberatoria con cui accetta di iniziare la cura e conferma di essere consapevole dei rischi degli effetti collaterali.»

«Ne sono consapevole?»
«Sono in questo foglio, ma non la invito a leggerli: vanno dallo starnuto alla morte tra mille sofferenze, esattamente come nei bugiardini dell’aspirina. Manderebbero in panico chiunque. La probabilità che si verifichi uno solo di questi effetti è talmente remota che non ha senso spaventarsi preventivamente. Si fidi di me, se succede qualcosa ce ne accorgeremo subito e sospenderemo.»

«Non l’avrei letto comunque. Mi fido.»

Era una mezza verità. Aveva sbirciato il foglio sul tavolo e la dicitura della diagnosi era in alto, lapidaria, qualcosa che solo dieci anni prima sarebbe stata una sentenza di morte veloce. Carcinoma renale al quarto stadio.

«Fuori da qui c’è mia sorella, dottore, e ho altre persone care. Quando mi chiederanno cosa ho, come lo devo chiamare? Quello che c’è sul foglio non riesco a dirlo.»

Si fissarono. Il medico sospirò, poi rilassò le spalle, appoggiandole allo schienale. Dietro alla barriera di plastica trasparente il suo corpo sembrava non avere spessori, come le foto pressate nelle cornici a giorno. Quando parlò, l’illusione della bidimensionalità svanì.

«Lei che nome vorrebbe dargli?»

Era una richiesta strana quella di battezzare un tumore. Le risuonarono in testa tutte le parole che conosceva già. Brutto male. Male incurabile. Il maledetto. Il bastardo. Quella cosa. Non gliene piacque neanche una e d’impulso disse:

«In coreano quella parola si dice “am”. Crede che potrei usare quella?»

Era stata così precipitosa nel rispondergli che nel momento stesso in cui aveva finito di fare la richiesta se la sarebbe voluta rimangiare. Si sentì infantile ad ammettere di aver bisogno di una parola che non fosse mai stata in bocca a nessuno che conosceva. Usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le parve l’unica sostenibile in quel momento. Si aspettava che il medico ridesse, ma lui invece sembrò ponderare la proposta, pensandoci qualche secondo. Poi annuì serio porgendole le prescrizioni nel pertugio del plexiglas.

«Mi scuserà, non so nulla di coreano, ma in inglese am è la prima persona singolare del verbo essere, quindi credo che sia una parola abbastanza giusta», sorrise. «Potrà rispondere I am, come se dicesse “quello che ho è qualcosa che sono”, e non sarebbe niente di impreciso.»

Seguì un silenzio denso, nel quale emozione e imbarazzo galleggiavano mischiati sulla linea dello sguardo di entrambi. Non riuscendo più a sopportare la barriera di plastica trasparente, lei si alzò in piedi goffa, ma il vantaggio di guardarlo dall’alto in basso durò poco, perché lui fece lo stesso.

«Allora grazie. Prenderò le pastiglie come mi ha detto, due al giorno.»

«Mattina e sera. Non le salti e non le butti, una scatola costa quasi settemila euro al servizio sanitario nazionale. Glielo dico perché ogni tanto qualcuno lo fa, finge di prenderle e invece le getta, non so perché, la gente è strana.»

Anch’io sono strana, dottore, pensò senza dirlo. Essere sospettabile di spreco in un contesto dove stava perdendo tutto le sembrò surreale. Mentre si stringevano la mano gli sorrise inutilmente dietro la mascherina, pensando che dopotutto nemmeno lui vedeva il suo viso per intero. Se si fossero incontrati fuori da lì a volto scoperto era probabile che non si sarebbero riconosciuti. Immaginò la scena al supermercato.

“Sbaglio o lei è…?”

Yes, dottore. I am.

Putin - Nicolai Lilin

E' un libro di facile lettura.
Chi legge attentamente questo libro ne saprà di più del 99% degli esperi tuttologi che sproloquiano in tv.

Un inganno di troppo - di Harlan Coben

Se amate il thriller psicologico made in USA, abbiamo una sorpresa per voi! Parleremo infatti di “Un inganno di troppo”, il nuovo romanzo di Harlan Coben edito in Italia da Longanesi. Nato nel New Jersey nel 1962, Coben è uno dei maggiori esponenti del thriller internazionale. Ha all’attivo 34 romanzi che hanno venduto 80 milioni di copie in tutto il mondo, e molti di essi hanno avuto adattamenti cinematografici. Malgrado la prolificità e la grande popolarità, questo autore continua a regalarci delle narrazioni di grande qualità, e il libro che recensiamo oggi ne è certamente l’ennesima prova.

La trama: Maya Burkett, la protagonista del libro ha da poco assistito al funerale di suo marito. Due rapinatori li hanno aggrediti durante una passeggiata a Central Park e hanno spento la vita di Joe a colpi di revolver. Un’amica le regala un portafoto digitale, con una telecamera nascosta, per tenere d’occhio sua figlia Lily mentre è in compagnia della babysitter. Fin qui niente di strano, una normale misura di sicurezza, se non che in una registrazione Maya vede qualcosa di impossibile: suo marito Joe, che ha visto morto e sepolto, entra nel campo della telecamera e accarezza sua figlia.

Maya non è certo una fanciulla indifesa, ha pilotato elicotteri da combattimento in Siria, colleziona armi e si esercita regolarmente al poligono di tiro, ma l’evento la mette a dura prova. Di lì a poco, infatti la registrazione sparisce nel nulla, lasciando lei e le persone che le sono vicine nel dubbio: suo marito è ancora vivo, o lei sta semplicemente impazzendo? Per risolvere il mistero, Maya dovrà scavare nei segreti della facoltosa famiglia di Joe, ma anche nel suo passato. Perché ha abbandonato l’esercito? Perché di notte sente ancora il rumore dei rotori degli elicotteri, degli spari e delle urla dei soldati? Perché la morte si ostina a seguirla?

Le 350 pagine di “Un inganno di troppo” non vi daranno tregua, con continui colpi di scena e rivolgimenti di prospettiva. Come spesso accade con Harlan Coben, alla base del racconto c’è un’idea potente e paradossale. Se in The Stranger c’era uno straniero capace di rivelare i segreti più intimi e imbarazzanti dei propri interlocutori, qui abbiamo una vedova che vede il fantasma di suo marito attraverso una telecamera nascosta. Partendo da questo trauma, la penna di Coben scandaglia con maestria i meandri dell’animo umano, facendo emergere i chiaro-scuri dei vari personaggi, che risultano forse non indimenticabili, ma straordinariamente tridimensionali, intessuti di vita quotidiana, di insicurezze e paure. Lo stile di scrittura è freddo, piuttosto neutro se vogliamo, ma anche estremamente accurato nel descrivere dinamiche quotidiane, che risultano famigliari e convincenti per il lettore.

Attraverso la passione della protagonista per le armi da fuoco, l’autore riesce anche a parlare di attualità, proponendo una riflessione di tipo sociologico sul Secondo Emendamento, che permette ai cittadini americani di detenere e portare armi in nome della libertà, ma che è anche alla base di tanti incidenti e sparatorie.

“Un inganno di troppo”, in sintesi, è un ottimo thriller, che mantiene le sue promesse e che saprà anche sorprendervi nel finale, con una chiusura piuttosto inattesa e ben congegnata… Buona lettura!

Il sale sulla ferita - Cristina Rava

Cristina Rava torna nelle librerie con le sue adorabili creature di carta, la dottoressa Ardelia Spinola e il commissario in pensione Bartolomeo Rebaudengo, nel libro intitolato Il sale sulla ferita, pubblicato da Rizzoli.

Un libro giallo accattivante e molto curioso.
Il sale sulla ferita racconta di quelle ferite che annientano, inspiegabili, da cui non si esce se non dopo un lungo periodo di elaborazione del lutto, processo impervio e difficoltoso. Infatti:

“Quando si perde una persona cara, il primo pensiero al risveglio, nel momento in cui il cervello si connette con la realtà, è come una coltellata. La coltellata può andare sempre più a fondo e fare male, un po’ come il sale su una ferita, se quella figura amata è stata uccisa e derubata del resto della vita non dal caso, ma da una volontà crudele”

A soffrire è la dottoressa Ardelia che vede il suo ex fidanzato, Arturo, morto nella piscina di un amico, con cui era solito intrattenersi. Dopo due anni di assenza, proprio in quei giorni Arturo telefona ad Ardelia, che percepisce un senso di disagio, di non detto. Ma non chiede ulteriori spiegazioni. Nulla. Cosa voleva veramente comunicarle il bel ex fidanzato? È un ulteriore approccio amoroso? O cos’altro? Lui è sempre stato così misterioso, ma non così tanto da essere ucciso! Chi ha voluto la sua morte? Altra stranezza: riguarda l’amico che ospitava Arturo. I due, infatti, si somigliano come due gocce d’acqua:

“Se il mio ex fidanzato fosse ancora vivo e li si potesse osservare uno accanto all’altro, qualche differenza si vedrebbe di sicuro, ma in quel momento il signor Drusi mi è sembrato identico. Ha ammesso lui stesso che la somiglianza era stata uno dei motivi che li avevano avvicinati.”

Ardelia indaga, ma questa volta è un po’ più dura del solito. Riuscirà a risolvere il caso?
Un giallo classico, una scrittura fluida da cui si percepisce una sordida sofferenza che annichilisce. Una protagonista che svolge un’indagine parallela acuta e precisa, volta più che altro a fare giustizia a un amore che non è più, ma è ancora per altri versi:

“L’immobilità e il silenzio sono sale sulla ferita, lui non indosserà mai più quel camice appeso all’attaccapanni, non ci sarà mai più musica ad accompagnare il suo lavoro di antico monaco erborista. (…) così era andata tra loro. Ma mai, nemmeno durante le liti peggiori, l’aveva odiato. E ora la vista del suo corpo sul bordo della piscina la devasta. È morto.”

Una commedia nera ben costruita, per gli amanti del genere. Atmosfere, personaggi e ambienti descritti minuziosamente. Uno sguardo, più dialogico che di prosa, che è volto alla conoscenza dei fatti con sobrietà e perizia narrativa. Un bel libro, che si divora in un attimo. Si percepisce una leggera vena malinconica, ma senza sbavature.

Un bel lavoro - Alfonso Fuggetta

Innovare è ricercare nuove forme di valore attraverso cambiamenti più o meno radicali di prodotti, processi e servizi. In alcuni casi l’innovazione si manifesta in modo incrementale, in altri dà origine a soluzioni completamente nuove e discontinue – ‘disruptive’, come dicono gli inglesi – rispetto alla situazione esistente.

Innovare è al tempo stesso difficile ed entusiasmante. È difficile perché significa cambiare o rivoluzionare lo status quo. È entusiasmante perché dà spazio alla creatività, all’intuito, alla capacità realizzativa.

Molti lavoratori, per esempio, vedono e toccano con mano problemi e opportunità di miglioramento, hanno idee e proposte per nuovi modi di affrontare problemi vecchi o emergenti, hanno intuito possibilità di creare valore in ambiti non ancora esplorati. Per loro non è più sufficiente continuare a fare ogni giorno le solite attività in modo ripetitivo e acritico: vogliono poter contribuire con le proprie idee e proposte.
“Per questo un bel lavoro deve anche dare spazio a creatività e innovazione”, rimarca Alfonso Fuggetta, nel suo nuovo libro che s’intitola proprio Un bel lavoro – un’analisi attenta per ‘Ridare significato e valore a ciò che facciamo’, come indica il sottotitolo –, pubblicato da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi.

Il volume approfondisce cosa può essere oggi un bel lavoro sotto numerosi punti di vista e sfaccettature, dall’inclusione alla crescita professionale, dai ruoli formali e informali alla leadership.

In questa sede ci focalizziamo sugli aspetti che riguardano il lavoro e l’innovazione.

Fuggetta è professore ordinario di Informatica presso il Politecnico di Milano, amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel, e dal 2022 è membro del gruppo tecnico ‘Il digitale per la competitività del sistema industriale’ di Confindustria. Ha già pubblicato diversi libri su come la Digital transformation e le nuove tecnologie stanno cambiando il mondo in cui viviamo e lavoriamo.

Un bel lavoro, “indipendentemente dalla sua natura e finalizzazione, è un’attività dove le persone sono stimolate a innovare, a ricercare modalità inedite attraverso le quali migliorare la qualità del prodotto, del servizio e del loro stesso agire quotidiano”, sottolinea un passaggio del libro. E mette in evidenza: “è incredibile come troppo spesso questa elementare considerazione sia totalmente ignorata, penalizzando sia l’impresa che i lavoratori”.

“Si dirà che questo atteggiamento è vero solo per certe categorie di lavoratori, quelli della conoscenza. Non è così”, rileva Fuggetta: “fin dai tempi dei visionari esperimenti nelle fabbriche giapponesi, gli operai, per esempio, sono una fonte straordinaria di innovazione”.

In pratica, vedendo come si svolgono quotidianamente le operazioni di assemblaggio di un bene, ne conoscono tutti i limiti e difetti e sono quindi in grado di proporre miglioramenti e soluzioni per l’appunto innovative. Non per niente laddove si è data voce ai lavoratori si sono migliorati prodotti e processi produttivi e, allo stesso tempo, sono aumentati il livello di soddisfazione e la qualità del lavoro.

Un’intera area di ricerca denominata User Innovation – e adesso anche Free Innovation – ha studiato come il processo di innovazione possa e debba vedere tutti coinvolti, non solo gli specialisti di una materia, ma anche e innanzitutto gli utenti finali. A maggior ragione ha senso dare spazio a chi nell’impresa lavora e contribuisce alla creazione e produzione di quei beni e servizi.

Un ambiente di lavoro dove tutti possono contribuire con il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze non solo rende più competitiva l’organizzazione, ma rafforza e qualifica anche il senso del lavoro e la qualità della vita delle persone.

Come stimolare i contributi degli individui e la loro voglia di innovare? Al di là di singoli strumenti organizzativi – o anche tecnologici, come forum e piattaforme di open innovation –, “due sono gli snodi principali che devono essere affrontati: la cultura dell’eccellenza e la cultura dell’ascolto”, rimarca Fuggetta. Ecco di cosa si tratta.

Se è vero che non si può continuare a raffinare o cambiare un prodotto o servizio all’infinito, e che quindi è necessario prima o poi mettere la parola ‘fine’ a un processo o a un’attività progettuale, è altrettanto vero che non bisogna mai accontentarsi di quanto fatto. Questa è, innanzitutto, la cultura dell’eccellenza.

È vitale continuare a ricercare ulteriori opportunità di miglioramento o di innovazione anche radicale. “Serve una cultura d’impresa che sappia consolidare e valorizzare i risultati raggiunti”, fa notare l’autore, “lasciando però sempre la porta aperta e anzi ricercando attivamente forme di valore originali e opportunità di miglioramento inesplorate”.

La partecipazione nasce dal dialogo, dalla voglia e dal desiderio costante di ascoltarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non è un atteggiamento naturale né semplice da attuare. Ascoltare richiede tempo, attenzione, volontà, umiltà, pazienza.

“Come mi ricorda sempre l’amico Maurizio Bernascone, si ascolta per comprendere, non per rispondere”, sottolinea Fuggetta: “spesso la frenesia del nostro lavoro quotidiano, i nostri limiti caratteriali e le ambizioni personali rendono difficile ascoltare. Combattere queste difficoltà permette di creare una cultura dell’ascolto che contribuisce a rendere ‘bello’ il lavoro”.

Alfonso Fuggetta è Professore Ordinario di Informatica presso il Politecnico di Milano ed è stato Faculty Associate presso l'Institute for Software Research della University of California, ad Irvine. Come Amministratore Delegato e Direttore Scientifico di Cefriel (dal 2005) si occupa di orientare le strategie del centro nei progetti di ricerca e innovazione e di stimolare il raccordo tra mondo accademico, istituzioni e imprese. Attualmente è parte del Gruppo Tecnico Politiche Industriali e Impresa 4.0 di Assolombarda e da maggio 2019 è membro del Comitato Educazione-Impresa della Commissione Nazionale UNESCO.

Il cielo d'erba - romanzo di Gianfranco Vergoni

Francesco e Viola sono innamorati. La loro è in apparenza una storia d’amore come tante altre: due giovani adulti della periferia romana, con una vita precaria e un futuro incerto, che si incontrano, si sposano, e imparano a volersi bene, a incastrarsi corpo e anima.

Francesco, sensibile e timido, Viola, energica e scostante. Ma questo amore chiederà loro una prova: Viola ha capito di essere dentro di sé un uomo e decide di iniziare il percorso della transizione di genere e cambia nome in Vittorio. Vuole che Francesco resti al suo fianco, che nulla cambi fra loro, perché ciò che ha dentro è lo stesso, è solo la forma esteriore a cambiare. Ma è davvero una strada, questa, che si può percorrere in due?

Il cielo d’erba (Longanesi) è il romanzo d’esordio del regista Gianfranco Vergoni. L’autore, perugino di nascita ma romano di adozione, prendendo spunto da una storia vera cui lui stesso ha assistito, racconta le difficoltà di Francesco, la cui unione con Viola, indiscussa sul piano del sentimento, vacilla a partire dalla progressiva ma definitiva trasformazione del corpo di lei.

Francesco fin dalle prime pagine conquista con la sua emotività goffa ma definita, con la sua identità densa di virtù e debolezze reali: né eroe né macchietta. La messa a fuoco, graduale ma intensa, della sua psicologia, delle sue insicurezze e anche delle sue contraddizioni (l’amore che prova per Viola, le difficoltà nell’accettare e nell’accogliere con lo stesso amore l’“avverarsi” di Vittorio, della sua identità maschile) è terreno fertile da cui prendono vita gli altri personaggi che abitano questo romanzo.

Intorno ai due protagonisti ruotano infatti amici, parenti e figure con cui l’autore arriva a comporre un vero e proprio campionario umano di ogni natura e genere, in cui emergono i piccoli e i grandi drammi di ciascuna esistenza, che compone il puzzle all’interno del quale ognuno di noi cerca di trovare un proprio spazio. Tutti i personaggi sono immersi negli ambienti pittoreschi e controversi della periferia romana, con i suoi bar, la sua parlata, i locali notturni, i mercatini.

A raccontare questa storia, in prima persona, è lo stesso Francesco, la cui voce restituisce un certo equilibrio fra intensità drammatica e ironia e permette di mantenere la percezione dell’autenticità con cui vengono restituiti gli stati d’animo dei protagonisti. È infatti proprio Francesco a mostrare un maggiore dissidio interiore, che, di conseguenza, lo porta a svolgere una sua personale evoluzione, diversa da quella di Viola, ma ugualmente importante.

«Frà, io so chi sono. L’ho sempre saputo.»

Le ultime parole che il cuore di Viola fa dire alla voce di Vittorio prima di dormire. Parole che la stanchezza fa emergere più morbide, eppure solide, scure, portanti come fondamenta di velluto nero che si allungano verso le buie profondità del pianeta.

«Non sto cambiando. Sto venendo alla luce.»

Allungo la mano verso l’abat-jour. È una luce che posso controllare. La notte spegne la stanza.

«Quello che sta affrontando il cambiamento sei tu».

La tematica della transizione di genere, attualissima, è affrontata dunque con una prospettiva narrativa originale, cioè quella dell’“altra parte”, di chi assiste al cambiamento.

Senza stereotipizzazioni di circostanza, Vergoni definisce con sensibilità ogni tassello emotivo e psicologico della vicenda, costruendo al contempo i personaggi e l’intreccio in maniera autentica e al stesso tempo leggera. La drammaticità e la serietà dell’argomento vengono infatti smorzate dal piglio autoironico del protagonista-narratore Francesco (che potrebbe sembrare, alla lontana, una sorta di Zeno Cosini dei giorni nostri) e da alcune leggere e intelligenti incursioni da commedia.

Una storia commovente, che riesce anche a divertire, ma che forse va oltre il semplice intrattenimento e assolve anche un compito più difficile: consegnare un messaggio, in quanto a essere promossa non è solo l’accettazione dell’altro, del diverso (ciò quella di Francesco verso Viola), ma soprattutto quella di se stessi: Viola impara ad abbracciare una volta per tutte la sua natura maschile mentre, in maniera più sottile e forse difficile, Francesco, riesce ad ascoltare le proprie emozioni e a comprendere che l’amore per gli altri non può e non deve portare a tradire, a ignorare la nostra identità e i nostri desideri, anche quando il mondo ci sembra al contrario e vediamo il cielo d’erba.

Di fronte a me, il mondo visto al contrario. È il punto di vista alternativo dal quale Viola mi ha insegnato a riconsiderare ogni certezza. I punti cardinali che si scambiano di posto, o piuttosto l’uno che si trasforma nell’altro, contrari solo in apparenza; ciascuno con dentro il proprio opposto. La femmina che si rivela maschio, il sole di mezzanotte, il nord che diventa sud, il sotto che finisce sopra, l’erba che spunta dal cielo. Il cielo come lo vedeva Viola, con gli occhi di Vittorio Il cielo d’erba.

La via della bellezza - Vito Mancuso

Libro interessante che permette di riflettere su elementi che costituiscono le nostre giornate. La via della bellezza è un ripensare la verità dell’uomo smascherando atteggiamenti quasi inconsapevoli che caratterizzano le nostre giornate. Un approfondimento che tiene ben presenti sia l’approccio che nel corso dei secoli è stato dato al tema della bellezza, sia la realtà attuale. Pagine in alcune parti di particolare vivacità ed interesse. Un libro da leggere per approfondire l’aspetto della bellezza che caratterizza le nostre azioni e le nostre giornate.

La realtà non è come ci appare - Carlo Rovelli

Interessante panoramica della situazione della ricerca fisica, con particolare attenzione agli ultimi due secoli. Dopo un veloce excursus sugli sviluppi della scienza fisica nei secoli, approfondisce con ampiezza, seppure con finalità divulgative, lo stato degli studi attuali permettendo al lettore di comprendere un po’ meglio i temi della ricerca scientifica attuale, che affiorano spesso nella quotidianità ma spesso senza le necessarie spiegazioni che ne permettano la comprensione piena. In particolare sono approfondite la teoria della relatività generale e la teoria dei quanti, le due teorie sulle quali si sta concentrando la ricerca attuale. Pur essendo un appassionato ricercatore Rovelli riporta le varie ipotesi su cui sono in corso le ricerche in campo fisico senza che far emergere le sue convinzioni, per permettere al lettore una conoscenza ampia delle ricerche attuali. I temi sono affrontati con una grande apertura intellettuale, anche se più di un passaggio risulta ostico da comprendere per la complessità dell’argomento trattato. Libro da leggere se si vuole avere una ampia panoramica degli sviluppi della ricerca in campo fisico, negli ultimi secoli e comprendere il rapporto anche con la fisica anteriore che è stato ed è tuttora oggetto di studio nelle scuole.
Non mancano alcuni riferimenti ad altre discipline che sorprendono. A tal proposito riprendo dal libro: “La nostra cultura, che tiene scienza e poesia separate, è sciocca, perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo, rivelate da entrambe" (pag.92).
In conclusione un libro da leggere per comprendere il nostro tempo, e non solo.

Cattivo sangue - Elena Di Cioccio

“Ero giovane, abitavo con il mio fidanzato in una piccola casa sul Naviglio di Milano, avevo mille sogni nel cassetto e tutta una vita davanti. Ma una mattina mi sono svegliata senza sapere che da lì a poche ore la mia vita sarebbe cambiata per sempre“.

Questa è la premessa di Cattivo sangue (Vallardi), il primo libro di Elena Di Cioccio (in copertina, nella foto di Giorgio Serinelli), attrice e conduttrice radiofonica e televisiva, in cui racconta a cuore aperto le proprie indelebili ferite: dalla drammatica scoperta della sieropositività (nascosta per metà della sua vita) al superamento della dipendenza da cocaina, passando per la perdita della madre e del fratello e dalla chiusura del rapporto con il padre Franz.

In questo romanzo-testimonianza l’autrice, che è stata anche inviata nel programma Le Iene (dove in un monologo ha esposto la sua storia), racconta l’accettazione della propria vulnerabilità e la trasformazione di una condanna in un atto di amore per sé stessa e per gli altri.

Intervista a Vanity Fair, l’autrice ha svelato: “Una psicoterapeuta mi ha spiegato che il trauma è come una ferita che sotto suppura anche se l’hai chiusa. Quindi devi riaprirla, tagliare la pelle, e fa male, ripulire e poi richiudere. La cicatrice resta, e devi accettarla. Il libro racconta molte delle deviazioni intraprese per non aver affrontato i miei traumi”.

Una storia, quella narrata in Cattivo sangue, che veicola un inno alla libertà, al di là di ogni segreto e pregiudizio. Un libro che mette nero su bianco una vita al limite, segnata dalla convivenza con una malattia stigmatizzante e con quei fantasmi interiori troppo spesso schiacciati dietro le apparenze.

“Dopo anni passati divisa tra la paura e la rabbia, non mi sento più in difetto di niente. Io sono questa cosa qui e non voglio più nascondermi. Quando incontro ogni singola persona mi domando se, come e quando dire che sono sieropositiva: lasciando la mia parola scritta ora lo do per fatto, una volta per tutte”, racconta al Corriere della Sera.

Era il giugno del 1993, avevo 18 anni e mi trovavo nel pieno degli esami di maturità. Da un paio di anni vivevo in una stanza tutta mia, nella casa di Milano 3 con mia madre e suo marito.

Un pomeriggio chiamai da un bar l’ufficio dei miei per avvisare che sarei partita per Modena. Avevo trovato un passaggio e sarei andata a vedere il concerto dei Guns N’Roses.

La voce antipatica dell’assistente del mio patrigno mi annunciò fredda:

«C’è stato un incidente, tuo fratello Giacomo è in rianimazione, a Varese. Raggiungi i tuoi, ti spiegheranno loro».

I biglietti per Axl and Co. li conservo, ancora intatti, con la matrice attaccata, in mezzo ai ricordi brutti.

Giacomo era il figlio nato dal secondo matrimonio di mia madre, aveva poco meno di 3 anni quando una ciliegia andata di traverso gli si era incastrata nella trachea, soffocandolo in pochi minuti. A nulla servirono la corsa all’Ospedale di Varese e gli sforzi di mamma e consorte che chiamarono medici da ogni parte del mondo con la speranza di riuscire a salvarlo. Il piccolo Giacomo, ormai intubato, restò in coma per circa una settimana prima che il suo corpicino, pompato a forza dai respiratori, smettesse di dare segni vitali. Morte cerebrale. Strazio totale.

Il 5 luglio 1993 Giacomo ci lasciava per sempre.

Nessun genitore dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli, è innaturale. Dovresti partorirli, crescerli e andartene sottoterra prima che i loro capelli diventino bianchi. La rabbia, il dolore e l’impotenza davanti a una morte così assurda, dolorosa per tutti noi, sono stati fatali per la parte di famiglia coinvolta, che non si è mai ripresa dall’accaduto.

Nel tempo, complice il riserbo delle mura di casa, si sono sommati lentamente strati di rancore, disperazione e infelicità che ne hanno segnato irrimediabilmente il destino.

Fuori scintilliamo, dentro inceneriamo.

Una mattina di maggio del 2016, invece, quasi quindici anni dopo quella della bomba ricevuta all’Humanitas, c’è stata un’altra funesta mattina della mia storia. Era un lunedì. Il weekend era trascorso benissimo: insieme ad amici avevamo festeggiato il compleanno di un’amica, con un pranzo sul suo terrazzo baciato dal sole, davanti al mare di Ostia. Avevo flirtato un sacco con uno che mi piaceva, e quella settimana avrei iniziato i preparativi per il mio viaggio-studio negli Stati Uniti, per frequentare l’Acting School di Susan Batson. La terza stagione di Squadra mobile era nell’aria, avevo altri progetti in cantiere ma fino a settembre sarei stata ferma. I provini potevo farli anche a distanza, quindi ero libera di andarmene negli USA per qualche mese.

Mi svegliai più tardi del solito, erano circa le 9.00 del mattino quando, acceso il telefono, un suono tritonale mi avvertiva che ero stata cercata con insistenza.

AA Ro. Ho chiamato alle 8.00 del 16.05.2016. Info su costi e condizioni di questo servizio…

AA Cinzia. Ho chiamato alle 8.15 del 16.05.2016. Info su costi e condizioni di questo servizio…

AA Babbo. Ho chiamato alle 8.30 del 16.05.2016. Info su costi e condizioni di questo servizio…

Usavo registrare in rubrica i numeri più importanti con una doppia AA maiuscola prima del nome. Il rating di AA, che li poneva all’inizio dell’agenda, e quindi immediatamente rintracciabili, era riservato esclusivamente alla mia famiglia: madre, padre, sorella, zia, patrigno. Anteponevo una A singola al nome degli amici del cuore e lasciavo tutto il resto del creato a un naturale ordine alfabetico.

Quel tris di AA aveva più o meno lo stesso orario, perché? Un’intuizione macabra mi freddò lo stomaco, pensai: L’ha fatto! Questa volta ci è riuscita.

Il 16 maggio 2016 Anita Ferrari, mia madre, è stata trovata morta suicida immersa nella grande vasca da bagno della palestra del marito, nella nuova ala della loro splendida megavilla di Milano 3. Come tutte le Marylin del mondo, mamma ha bevuto tutte assieme quelle dannate goccine accompagnata dal pianto di cera di candele inermi, che aveva sistemato vicino alla vasca, e dagli sguardi fissi di noi figli.

Delorazepam, Xanax, Minias, Trittico, Tavor, Valium, Gardenale, Zoloft: un mix di quelle sue maledette medicine che non faceva nessuna fatica a procurarsi – e i cui racconti facevano tanto ridere nei backstage dei concerti, alle cene o in spiaggia a Porto Cervo –, ma che l’avevano addormentata per sempre.

«Anita? Glu glu glu, goccine e via. C’è una farmacia in casa!»

Tutte quelle goccine che giravano per casa io le chiamo arsenale, non farmacia. Minuscole armi di distruzione privata su cui non c’è proprio un cazzo da ridere. Perché non mi hai dato retta, mamma? Perché non sei venuta a stare un po’ con me a Roma?

Mia madre aveva già tentato il suicidio altre volte, e le ragioni, rimaste sorde alle orecchie dei più, le aveva affidate a supporti di fortuna, ogni volta diversi: battute sulla tastiera del computer e poi organizzate in un file dove si era presa la briga di scrivere la memoria della sua vita e consegnarla al suo avvocato di fiducia; scritte a penna su fogli strappati da vecchie agende e ritrovati accartocciati tra le sue cose; o ancora sulle sue candide tele dove aveva impresso le sue grida di dolore.

Le immagini di queste tele restano indelebili nella mia memoria. Sei un Mostro vigliacco aveva scritto vergando un quadro bianco che attendeva di diventare uno dei suoi famosi panorami del mare sardo che tanto amava dipingere.

L’ultimo tentativo di uccidersi, il più eclatante, era avvenuto solo un paio di anni prima, nel gennaio del 2014, e la sua morte era stata scongiurata dall’arrivo delle Forze dell’Ordine che lei stessa aveva chiamato in un attimo di lucidità, nel tentativo estremo di salvarsi la vita. Leggere il verbale di quel salvataggio e guardare gli scatti dei rilevamenti fu orribile allora e resta orribile oggi, mentre sfoglio il fascicolo.

La dinamica del disastro l’aveva affidata lei stessa a una e-mail indirizzata ai membri della famiglia, alle amiche più care e al centralino dell’ufficio del marito: Questa notte ho tentato il suicidio, ho ingoiato 100 pastiglie di Minias e 100 di Zoloft, ho aperto il gas. Nulla è successo. Ora mi taglierò le vene. In casa di mia madre e affidata alle sue cure viveva anche sua sorella, la mia adorata zia Elida, rimasta disabile in seguito a un incidente diversi anni prima. Così Anita continuava nella e-mail: Porterò con me mia sorella perché sono certa che finirebbe in un istituto.

Poi un passaggio agghiacciante. Non voglio funerali. Il mio testamento è depositato qui. Questo è il solo modo per sfuggire ai massacri… alle offese… vi prego di essere oneste e di dire tutto quello che avete visto e sentito in questi anni. Aiutatemi a far trionfare la verità.

A seguito di quel tentativo di farla finita, fu ricoverata in TSO per oltre un mese e restò per i successivi due mesi in un centro di riabilitazione. Quando ne uscì era provata ma un filo più convinta di dover fare quei cambiamenti di vita che le erano stati suggeriti dagli stessi psicologi. Purtroppo, e a dispetto di ogni previsione, pur continuando terapie e cure farmacologiche, quei cambiamenti non li fece mai. Riprese la sua vita di sempre nella grande villa in culo al mondo. Tutto tornò come prima, come se nulla fosse successo.

Mamma è a casa, fine della storia.

Non ne parlammo più.

E la ferita aperta, blandita dall’agio economico ma lasciata infetta, continuò a suppurare nell’ombra senza guarire mai. E prima o poi, come una non morta, sarebbe tornata a chiedere aiuto.

Così mamma aveva deciso di nuovo di porre fine al suo tormento. E questa volta sarebbe andata fino in fondo, organizzando perfettamente la sua uscita di scena. Aveva scelto il giorno giusto, quella domenica notte, quando sarebbe stata sola: il marito, sempre in tour al seguito dei suoi artisti, si sarebbe trovato abbastanza lontano da non poter prendere neppure un aereo all’ultimo minuto. Aveva stabilito che sarebbe successo dopo cena, quando lo staff di servizio della villa smontava il turno. Aveva predisposto tutto perché non aveva alcuna intenzione di fermarsi, voleva solo morire.

Le risorse che la disperazione muove sono infinite come la disperazione stessa, e la mia passione per le quattordici stagioni di CSI-Las Vegas ha fatto il resto davanti al fatto compiuto. I passaggi follemente lucidi della sua preparazione questa volta mi sarebbero stati chiari nei giorni successivi, quando, ipercinetica in cerca di conforto, ho messo assieme tutti i pezzi, analizzando la situazione, raccogliendo dati, cercando nella sua posta, nelle e-mail, aprendo la cronologia del suo computer e hackerando, grazie all’aiuto di amici nerd, cellulare e chat di WhatsApp. Così i suoi ultimi mesi di vita prendevano un senso nuovo.

All’ultima cena di Natale, tra una terrina di prestigioso paté di fegato d’oca e un’insalata russa, mia madre mi aveva allungato con nonchalance una busta chiusa, come fosse un tovagliolo.

«Dentro c’è il mio testamento. Non lo voglio lasciare in casa perché non so che fine farebbe. Lo puoi conservare tu per me?»

Mi innervosii parecchio. Mal sopportavo questa pratica, comune a ogni ramo allargato della famiglia, di consegnarmi la responsabilità di un segreto importante da tacere a tutti gli altri, quel tipico «Sssh, lo sai solo tu, non dirlo a nessuno». Si tratta di manipolazione, soprattutto se a compierla sono gli adulti, che mi faceva sentire speciale nei confronti dell’uno e colpevole nei confronti dell’altro.

Compiacente e frustrata come al solito, dissi a mia madre che avrei messo la busta in cassaforte così com’era, senza leggerla, e che poi non ne avrei voluto sapere più nulla. Ero stanca di questa strisciante minaccia di sciagura imminente.

«Non sei curiosa di aprire per sapere quello che ho scritto?», mi chiese.

«No», risposi. «Qualsiasi cosa ci sia scritto dentro, per me, questa busta non esiste. Non mi tirare più in mezzo a queste dinamiche. Io non ci posso fare più nulla. Ti chiedo solo una cosa, mamma, qualsiasi cosa tu abbia deciso di fare, non condannarmi a prendere il tuo posto per sistemare le cose. Non è la mia storia.»

Avevo accettato tra i sensi di colpa e l’impotenza di non poter fare più nulla per lei.

Forse, come tutti, avevo anch’io ignorato una delle sue ultime richieste di aiuto, un segnale d’allarme in fondo così esplicito? Aveva detto «il mio testamento», e cos’altro è un testamento se non il definitivo lascito di chi sente, o sa, che la sua sabbia nella clessidra del tempo sta per finire?

Potrei dire di aver sottovalutato, di aver creduto che giocare con la morte fosse diventato il suo modo di vivere tra la disperazione e il desiderio, forse inconscio, di tenere costantemente all’erta l’attenzione sulla sua infelicità. Ma la verità è che stare accanto al dolore irredimibile di chi si ama diventa una routine, perché ci si abitua a tutto, anche all’ansia perenne di svegliarsi una mattina e sapere… che il peggio è accaduto. E la rassegnazione all’impotenza è arrivata dopo anni e anni, durante i quali ho sperato e provato in tutti i modi a mitigarlo, quel dolore. Con le buone e con le cattive. Rincuorando e litigando, parlando, urlando e piangendo. Poi arriva la resa, con la consapevolezza che nessuno può vivere la vita di un altro. Neanche se quell’altro è tua madre.

E mia madre aveva già deciso: quella volta niente l’avrebbe fermata. Come i tossici che non puoi salvare quando scelgono di iniettarsi la dose che risulterà letale.

Domenica 15 maggio 2016 alle ore 18.21 aveva ripostato su Facebook un video tristissimo dal titolo Mamma sei diventata un angelo, che si apriva con un riquadro: Una rosa per ogni mamma volata via. Mi ricordo che il tono drammatico di quel post, già pubblicato qualche giorno prima, l’8 maggio, in occasione della Festa della Mamma, mi aveva dato noia, così come mi davano sui nervi tutti quei post passivo-aggressivi, tipo Capiamo il valore delle cose solo quando queste ci vengono tolte. Mannaggia, no! Se stai male, se vuoi che cambi qualcosa nella tua vita, non puoi affidare il tuo messaggio alla bacheca di Facebook, sperando che il destinatario lo intercetti, ne venga colpito e corra da te sulle ginocchia al grido di «Scusami, ho capito, da oggi ti giuro che sarà tutto diverso! Ti amo».

Avevo pensato che, di nuovo, mia madre avesse scritto il post drama queen per ricordare la nonna, sua mamma. E invece no. Parlava di se stessa, nella sua contorsione espressiva stava annunciando che lei, di lì a poco, sarebbe stata una di loro, una mamma volata in cielo. E lei, da diversi anni, si percepiva ormai solo come mamma e non più come donna.

La cronologia del suo computer mi raccontava che il pomeriggio di quel 15 maggio 2016 lo aveva in parte trascorso seduta alla sua scrivania, visitando siti dedicati al suicidio. Aveva letto istruzioni su quale fosse la giusta quantità di sonniferi da assumere per uccidersi e su come provare meno dolore nel giorno fatidico. Un bagno caldo, ho letto in una delle pagine in questione, era indicato come soluzione perfetta per un passaggio morbido dalla vita alla morte. Metteteci dei profumi, accendete le candele, vi addormenterete senza rendervene conto, si leggeva sulla homepage. Dio santo, come cazzo si può pensare di scrivere un tutorial del genere?

Mi fa impazzire immaginare mia madre che inforca gli occhiali, alza un poco il mento per seguire meglio questa ricerca mortale sul web, invece di prendere un biglietto aereo e raggiungermi a Roma per scorrazzare in scooter alla ricerca della migliore carbonara capitolina. Era una cosa che facevamo spesso quando veniva a trovarmi. Caricavo mia madre sulla moto e ce ne andavamo in giro per città a fare le turiste. Quando smetteva il ruolo rigido di direttore finanziario, mia madre era superbuffa, in ogni suo gesto. Era una macchietta, sempre fuori tempo, fuori luogo, una bambina stralunata nel corpo goffo di una sessantenne con dei capelli improbabili. Era sorda da un orecchio e quando non capiva bene le cose, strafalcionava con gusto comico il senso delle cose, esplodendo poi in una risata travolgente. Mi faceva tanto ridere, mia madre, quando si dimenticava di tutto il resto. Poteva ridere cinque minuti da sola senza che nessuno ne capisse il perché. Le partiva la ciavatta del riso, come si dice a Roma, e non si fermava più.

Saliva sulla mia moto a peso morto, proprio come fanno le signore un po’ attempate che non hanno mai guidato una due ruote, e così una volta siamo volate a terra con tutto lo scooter. Era successo dopo aver messo il piede sinistro sulla pedivella per issarsi: al momento di aprire la gamba destra per inforcare il sellino si era resa conto che i pantaloni troppo stretti le impedivano il movimento, e in quella posizione assurda aveva iniziato a ridere perdendo l’equilibrio. Per non cadere, mi si era aggrappata con tutta la sua forza al mio braccio sinistro, tirandomi giù insieme a 200 chili di moto! Ci eravamo letteralmente pisciate sotto dalle risate, rotolandoci in mezzo alla strada. Ridevamo così tanto che non riuscivamo nemmeno a rimettere in piedi lo scooter.

Per non parlare di quella volta, sul raccordo anulare, quando alla stazione di servizio, in meno di due minuti, il tempo di andare in bagno, mia madre aveva combinato uno dei suoi disastri. La causa: la sua leggendaria distrazione. Quando risalii in auto la trovai che guardava l’orizzonte, immersa nei suoi pensieri. Feci per mettere in moto, ma la macchina non partiva.

«Che succede?», chiese.

«Non lo so, mamma, adesso capisco», risposi. Provo e riprovo, niente. «Porca miseria, ma cosa può essere successo?» Non volendo scaricare la batteria, non insisto. «Mamma, ma hai fatto il pieno mentre ero in bagno che eravamo a secco?»

«Certo, per chi mi hai preso? Mica sono scema, guarda ho fatto 75 euro di benzina!», dice mostrandomi la ricevuta del self-service.

«Mamma, stai dicendo benzina intendendo il pieno, vero? Non avrai messo la benzina nella mia macchina a diesel?»

«Ah, perché è un diesel?», risponde lei serafica.

«Dimmi che non hai messo la verde, ti prego…»

«… E non lo so cosa ho messo… Poi, scusa, tu hai detto siamo senza benzina e io quella ho fatto!»

«Ma, mamma, è un modo di dire! Mica dici sono senza diesel, che poi suona anche male! Non hai visto che il bocchettone del serbatoio era enorme?»

«Oh, senti, tu hai detto benzina e io quella ho fatto. Dovevi essere più specifica! Ho fatto anche quella buona, con gli ottani, che costa di più. La prossima volta te lo fai tu il pieno!»

Quanto mi manca ridere di e con mia madre.

Tornando al giorno del suo suicidio, tra le varie istruzioni che deve aver letto in giro nella rete, c’era anche quella su come redigere il testamento perfetto, insieme al monito di ricordarsi di lasciare qualcosa di scritto alle persone care che di sicuro soffriranno la vostra dipartita. Mannaggia al demonio, vi odio tutti grandi teste di cazzo che avete scritto ’sta roba! Mi bruciano le mani e vi vorrei tirare dei pattoni sulla faccia, incommensurabili imbecilli della tastiera!

Fortunatamente un po’ alla volta questa merda è sparita da internet. Oggi se scrivo come suicidarsi sul motore di ricerca, il mio algoritmo mi offre come primo risultato una grande scritta che recita: POSSIAMO AIUTARTI? Parla subito con qualcuno oggi stesso. Chiama il numero 06… o clicca qui per ricevere aiuto e assistenza in caso di rischio suicidio. Capisco che molto deve essere cambiato in questi ultimi anni, dove i claim che invitano a chiedere aiuto in caso di bisogno appaiono sul web, all’inizio delle serie tv e in testa a ogni racconto in cui qualcuno in difficoltà ha fatto una brutta fine perché forse non è stato ascoltato con cura.

Mamma si era organizzata alla perfezione. Presagendo quello che sarebbe accaduto in seguito e perché fosse inattaccabile in sede di controversia, aveva redatto a mano un nuovo testamento completo ed esaustivo, lo aveva sigillato in una busta indirizzata all’unica persona che, una volta scoperta la sua morte, era certa sarebbe arrivata prima di tutti, mia sorella, scrivendo sopra alla busta Raccomandata a mano per. Le spiegazioni sul motivo del suo gesto e le istruzioni alle figlie, invece, le aveva scritte in una lettera stampata al computer e firmata a mano, dopo il commiato: Vi voglio tanto tanto tanto bene mamma. Un tanto per ciascuna di noi.

Dopo la morte di Giacomo era infatti arrivata un’altra bambina. Nella lettera parlava del peso delle mortificazioni subite che paragonava a macigni, del senso di colpa che la divorava per aver impostato la sua vita intorno alla chimera di un amore non ricambiato, del terrore che aveva di perdere le sue facoltà mentali e finire male come sua sorella disabile. Ci chiedeva in maiuscolo di RISPETTARE le sue volontà: non voleva nessun funerale e nessuna sepoltura. Voleva rose rosa sulla bara, ma solo quelle di noi figlie. Qualsiasi altra rosa, scriveva, sarebbe stata un insulto, soprattutto se posata da chi non me ne ha mai regalate in vita. Proseguiva invitandoci a volerci bene, ad andare d’accordo e a sostenerci tra sorelle. Ci spiegava il ragionamento che l’aveva guidata nell’assegnazione dei suoi beni. Dava per scontato che avremmo fatto il funerale per nostra zia, che anche questa volta aveva deciso di portare con sé nel viaggio verso la lunga notte. Ironia della sorte, mia zia è sopravvissuta due volte di fila alla furia omicida di mia madre, nonostante le avesse tagliato le vene prima di immergersi nel suo bagno di morte. Fatico a immaginare il terrore che deve aver provato quella povera donna invalida, immobilizzata, con le vene aperte e quell’odore infame simile alla ruggine che le aleggiava attorno.

Trovare le parole giuste per raccontare di questo suicidio è impegnativo, ma per quanto sia duro l’esercizio, l’immaginazione mi lascia lo spazio per sottrarre e aggiungere in accordo con la mia sensibilità. E così, rileggendo quello che ho scritto, mi accorgo di aver narrato l’avvenimento un po’ ovattato, quasi drammaticamente più romantico di quello che è stato nella realtà. Come illuminato dalla luce calda della mia fantasia che rende più belli i colori e meno netti i contorni, sfumando la cupezza del ricordo.

È nella freddezza delle immagini scattate dagli agenti in occasione del ritrovamento del cadavere che tutta questa vicenda esplode nella sua crudezza. Le ho scrutate una per una in cerca di quei dettagli che danno davvero voce a chi ha scelto di zittirsi per sempre.

La stanza era spoglia e fredda, nessuna candela profumata, nessun fiore, nulla di scenograficamente rilassante come il sito web aveva tanto raccomandato di fare. Ma morire non è come al cinema, si muore e basta, senza nessuno che ti batte il ciak. Il corpo nudo era a faccia in giù e affiorava a filo d’acqua che il sistema anti fuoriuscita della vasca aveva mantenuto a un livello costante, nonostante il rubinetto aperto. Il volto affogato spariva sotto ai capelli che galleggiavano come alghe marine. Dall’acqua spuntava solo un accenno delle sue spalle, delle natiche e dei gomiti. Sul muro, che sovrastava il lato lungo della vasca, fiammeggiava il rosso scuro di una frase scritta con il suo stesso sangue: I soldi sono salvi.

Tutto intorno c’erano blister di pastiglie, contenitori di gocce, siringhe, pezzi di carta, fazzoletti usati e il grosso coltello da cucina dal corpo argentato con cui mamma si era procurata diverse ferite da taglio sulle braccia e sui polsi. I lembi dei tagli avevano quell’aspetto gommoso di quando la carne resta troppo tempo a mollo.

A che ora deve essere successo? Difficile da definire, dal momento che quel filo di acqua calda ha continuato imperterrito a scorrere, mantenendo stabile la temperatura. Su una bianca sedia di design accanto alla vasca aveva disposto quattro quadretti con le foto dei suoi amori: Giacomo, le mie sorelle, io e il suo cane Kobu. Uno di quei quadretti glielo avevo regalato il Natale precedente: era una bella foto di noi quattro femmine sorridenti, una madre e le sue tre figlie in costume da bagno, in Sardegna. Ne avevo fatto incorniciare quattro copie, una per ciascuna, perché fossimo sempre assieme anche se lontane. Era una foto che le piaceva molto.

Poi la sequenza di immagini scattate dagli agenti si animava ritraendo le persone autorizzate a repertare la scena girando il corpo per attestarne il decesso. La smorfia sofferta che mamma aveva sul volto completava quella scena sconcertante di un corpo richiuso su se stesso, più simile a un feto adulto che alla persona che era stata.

La lucidità con cui ha organizzato la sua morte mi ha lasciato sgomenta. Ho sondato ogni aspetto del suo mondo per trovare quello che forse era sempre stato lì. Ho riletto i suoi scritti, i suoi appunti, le sue lettere, ho riguardato decine di fotografie, rivisto i suoi filmati per cercare negli sguardi il non detto. Si dice che tutto sta nei dettagli, ma alcuni dettagli io ho deciso di lasciarli andare. Quando forzammo il suo cellulare, dentro c’era tutta lei: c’erano le ultime chiamate fatte, quelle ricevute e quelle rosse non risposte. Le foto nostre, delle amiche e dei suoi fiori, gli stucchevoli video di «Buongiornissimo» che mi spediva ogni due per tre, la casella di posta elettronica. C’erano tutti i messaggi sms. Tutto era rimasto intatto. Mamma aveva maneggiato solo la chat di WhatsApp prima di addormentarsi: tra tutte le sue conversazioni digitali, qualcosa era stato cancellato. Pur avendo i mezzi per farlo, non ho voluto indagare oltre, rispettando quello che mamma aveva deciso di fare. Cancellare.

(continua su Bibliolandia…)