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La cortina di vetro - Micol Flammini

L’Unione Sovietica è caduta in Bielorussia, nella repubblica socialista che meno, tra quelle affacciate a Occidente, nutriva spinte indipendentiste e che, tutto sommato, avrebbe anche lasciato le cose come stavano. Da un lato c’erano i baltici, che non avevano mai sopportato l’Urss, dall’altro l’Ucraina, che aveva iniziato a cercare la strada per l’indipendenza. Dalle repubbliche limitrofe soffiava aria di cambiamento, in Bielorussia, invece, c’era voglia di conservazione. Nel 1991 Stanislau Shushkevihc, un professore di fisica più dedito ai laboratori che alla politica, era da poco diventato presidente del Soviet supremo della Bielorussia quando il 7 dicembre decise di organizzare una battuta di caccia nella ricca foresta di Belaveža.

Shushkevich invitò il presidente del Soviet supremo della Russia, Boris Eltsin, e quello del Soviet supremo dell’Ucraina, Leonid Kravchuk, per parlare di consegne di petrolio e di gas. Il conto alla rovescia per il collasso dell’Urss era già iniziato e il leader bielorusso voleva assicurarsi che per l’inverno i suoi cittadini non avrebbero patito il freddo né avrebbero dovuto far fronte a una crisi energetica (la dipendenza della Bielorussia dalle fonti energetiche di Mosca non è mai finita ed è ancora al centro dei rapporti tra Aleksandr Lukashenka e Vladimir Putin). Boris Eltsin amava molto la natura e le battute di caccia, e quella di Belaveža è un’antica foresta vergine dagli scorci meravigliosi, che la Bielorussia condivide con la Polonia, dove prende il nome di Bialowieza; così Shushkevich pensò che tra quei paesaggi incontaminati avrebbe avuto maggiori opportunità di ottenere dal presidente russo un buon accordo. Non aveva però previsto che invece sarebbero finiti a parlare d’altro: del piano di Michail Gorbaciov per riformare l’Unione Sovietica.

Il presidente dell’Urss era sempre più debole, ma non rinunciava all’idea di poter ancora salvare il progetto sovietico facendo confluire tutte le repubbliche, a eccezione di Lituania, Lettonia ed Estonia, in una nuova federazione amministrata in modo più centralizzato e riformata attraverso un piano di norme che ne favorissero la trasparenza e la democratizzazione. Il problema era che soltanto il presidente bielorusso e il presidente kazako Nursultan Nazarbaev appoggiavano il progetto. I leader delle altre repubbliche caldeggiavano già l’indipendenza e lo stesso Kravchuk si era fatto promotore di un referendum per sancire l’uscita dell’Ucraina dall’Unione Sovietica che ebbe un successo straordinario e fu approvato anche nella regione orientale del Donbas e nella penisola di Crimea, abitate da una popolazione in maggior parte russofona. Kravchuk non voleva quindi sentir parlare di un’Unione riformata o più centralizzata e a Belaveža Eltsin fece capire che non sarebbe stato possibile seguire un piano che non includesse l’Ucraina, quindi bisognava trovare una soluzione alternativa.

La battuta di caccia si trasformò in una riunione serratissima. I consiglieri che avevano accompagnato i tre presidenti e pensavano di dover parlare di gas e petrolio si trovarono invece a cercare soluzioni per ridisegnare il mondo. Per Eltsin, l’importante era trovare una nuova forma di coabitazione, voleva evitare che il legame tra la Russia e le altre repubbliche venisse reciso per sempre. Stettero in piedi tutta la notte e alle prime luci dell’alba dell’8 dicembre, nella sala del biliardo della dacia del presidente-fisico Shushkevich, le tre delegazioni stesero la bozza definitiva dell’accordo di Belaveža. Il patto, che andava bene a tutti tranne che a Gorbaciov, decretava la trasformazione dell’Urss nella Csi, Comunità degli Stati indipendenti (fu Kravchuk a imporsi affinché non comparisse più la parola “unione”). La sede della nuova alleanza di paesi sovrani che prevedeva una collaborazione in campo politico, economico e militare sarebbe stata la capitale bielorussa Minsk.

L’Unione Sovietica cessava di esistere. Il 25 dicembre 1991 Gorbaciov si dimise e la vita dei nuovi Stati era ancora tutta da definire. Dopo quella battuta di caccia Šuškevičc era diventato non soltanto il primo presidente della Bielorussia indipendente, ma anche il primo presidente di uno Stato mai esistito fino ad allora. Nella storia il territorio pianeggiante della Bielorussia si è prestato a incursioni di vari nemici e imperi, è stato annesso e attaccato da più parti e quando nel 1918 venne proclamata la creazione della Repubblica popolare della Bielorussia, l’esperienza fu breve e terminò un anno dopo con l’arrivo dell’Armata Rossa e la fondazione della Repubblica socialista sovietica bielorussa. (...)
Nonostante la storia avesse dimostrato il fallimento del progetto sovietico, a Minsk c’era ancora chi pensava di poterlo rianimare.

Senza rancori o grandi desideri di rivoluzionare il sistema del suo paese, Shushkevich continuò a mantenere un buon rapporto con la Russia di Eltsin, che aveva sempre reputato un buon amico e dal quale continuava a dipendere per le forniture energetiche. Fino all’ultimo, Shushkevich fu uno dei pochi che continuarono a difendere l’eredità dell’ex presidente russo, a definirlo un uomo dotato di una visione, un riformatore; certo con il vizio dell’alcol, ma vittima del giudizio troppo severo dei politici occidentali, i quali da una personalità di Stato si aspettavano un atteggiamento più istituzionale. Traghettare la Bielorussia fuori dall’Unione Sovietica non era un compito facile, anche perché la popolazione non era ostile al passato, non conservava un ricordo negativo dei tempi dell’Urss e non aveva capito fino in fondo che motivo ci fosse per abbatterla. Così Shushkevich decise di non togliere al paese quella patina sovietica, di lasciare alcune cose immutate, di rendere il cambiamento quasi impercettibile.

Non c’era bisogno di demolire palazzi e statue, di calpestare bandiere. Ancora oggi, tra i popoli dell’ex blocco, i bielorussi sono i meno critici, e a Minsk, con le sue strade enormi, geometriche e sconfinate dove il tempo sembra essere rimasto immobile, in piazza Indipendenza è ancora presente la statua di Lenin. Shushkevich non cambiò nome neppure alla principale agenzia dei servizi segreti, che ancora oggi in Bielorussia si chiama Kgb e ha la sede nello stesso palazzo dei tempi sovietici, tenuto d’occhio dal busto di Feliks Dzeržinskij, fondatore e direttore della Ceka, la prima polizia sovietica ritenuta colpevole di una persecuzione brutale e sommaria dei nemici politici. In tutti gli altri paesi ex sovietici il nome Dzeržinskij fa tremare, in Bielorussia no. (...)

In una cosa, però, Shushkevich decise di dare retta alla maggiore forza d’opposizione anticomunista, il Fronte popolare bielorusso: cambiò la bandiera e il simbolo nazionale. La bandiera della Bielorussia sovietica era formata da due strisce orizzontali, una rossa più grande e una verde più piccola, e da un fregio laterale. Al suo posto venne adottata quella fugacemente utilizzata dal paese dopo la prima guerra mondiale, costituita da tre strisce orizzontali bianca-rossa-bianca. Come simbolo, al posto dei fasci di grano con al centro la falce e il martello sormontati da una stella, venne adottata la “Pahonia”, un cavaliere armato di spada a cavallo. La bandiera e il simbolo sono importanti per capire anche la Bielorussia di oggi e Aleksandr Lukashenka, l’uomo che, dopo aver fatto carriera come direttore di un sovchoz, domina la scena politica del paese dal 1994.

I sovchoz erano un tipo di azienda agricola interamente statale, nella quale i contadini, sovchozniki, prendevano un salario fisso e davano l’intero raccolto allo Stato. Di questa sua gestione Lukashenka fece un argomento propagandistico molto forte in politica, convinto che se era stato in grado di dirigere un sovchoz, prendere in mano le redini della Bielorussia non sarebbe stato così diverso. E siccome i bielorussi non avevano una concezione negativa di queste strutture, gli credettero. In qualsiasi altro paese posto lungo il confine occidentale dell’Urss, invece, sarebbe stata una credenziale inaccettabile per aspirare alla presidenza. Lukashenka entrò in Parlamento nel 1990, lo stesso anno di Shushkevich. Dalla sua aveva la giovane età, trentasei anni, e il fatto di essere collocato a capo di un comitato anticorruzione, parola che dalla caduta dell’Urss cominciò a diventare importantissima in tutti gli ex paesi satelliti. Lukashenka approfittò della sua posizione per mettere sottosopra le istituzioni che si stavano formando e soprattutto per muovere accuse di appropriazione indebita contro Shushkevich, che fu costretto a dimettersi. Le accuse non vennero mai provate, ma alle elezioni che si tennero nel 1994 l’uomo del sovchoz si candidò e vinse.

Shushkevich, invece, dopo aver subito una campagna di demonizzazione, ottenne soltanto il 9,9 per cento dei voti. (...) Demonizzare Shushkevich era per Lukashenka un modo per assicurare che lui avrebbe fatto di meglio: avrebbe ridato ai bielorussi l’Unione Sovietica, quella vera. Arrivato alla presidenza, decise di proporre un referendum per cambiare di nuovo stemma e bandiera e per consolidare il proprio potere, trasformando così la Bielorussia in una dittatura. Cercò di centralizzare l’economia del paese, proprio come fosse un sovchoz, elevando a motivo di orgoglio nazionale la produzione e l’esportazione dei trattori a quattro ruote Belarus, che divennero un punto fermo dell’economia bielorussa e un simbolo del potere di Lukashenka, che ne regalò uno a Putin in occasione del suo settantesimo compleanno.

Da quando fu eletto, Lukashenka lavorò al progetto di riunificare Bielorussia, Russia e Ucraina all’interno di una nuova entità statale sul modello sovietico, credendoci più di Mosca e sicuramente più di Kyiv, che invece non voleva saperne. Lo sviluppo più importante di questo programma consiste in un accordo firmato da lui e da Eltsin per la creazione di una federazione con la Russia che non si realizzò mai, ma che, secondo Lukashenka, avrebbe dovuto essere a guida bielorussa, perché soltanto Minsk era rimasta fedele ai principi dell’Urss. Per un periodo abbastanza lungo, sul piano economico la Bielorussia risultò essere la più sana delle ex repubbliche socialiste sovietiche, più sana anche della Russia. E il segreto stava soprattutto nel non aver mai davvero tentato di aprire la sua economia: per anni il prodotto interno lordo di Minsk è stato il doppio rispetto a quello di Ucraina o Georgia, che invece stavano sperimentando l’economia di mercato.

La Bielorussia aveva mantenuto la centralizzazione mentre gli altri, privatizzando le aziende statali, avevano creato le premesse per un pericoloso sistema oligarchico. Inoltre, rispetto alle altre nazioni sovietiche, Minsk non ha mai davvero tentato di staccarsi da Mosca, dimostrando una fedeltà che le ha consentito di godere delle risorse energetiche russe a prezzo scontatissimo. Con il passare del tempo, però, la fedeltà al tabù del capitalismo ha reso l’economia della Bielorussia stagnante e sempre più dipendente dalla Russia. Gli occhi dei bielorussi hanno così cominciato ad aprirsi su cosa significasse vivere in uno Stato rimasto indietro, più povero dei suoi vicini, anche di quelli ex sovietici, e su che senso avesse fare finta che l’Urss fosse ancora in piedi. La situazione si è aggravata con l’arrivo della pandemia, quando Lukashenka non ha voluto prendere decisioni che rischiassero di risultare impopolari: non ha introdotto alcun lockdown, non ha imposto l’uso di mascherine e consigliava di curare la malattia con sauna, lavoro sui trattori – l’orgoglio nazionale – e vodka. La Bielorussia è rimasta un’enclave sovietica ai confini dell’Europa con un sistema politico ed economico farraginoso e poco riformato, che ha dato a Minsk un periodo di crescita e di stabilità, ma soprattutto di dipendenza dal Cremlino di Vladimir Putin (...).

In Bielorussia il russo è la lingua ufficiale, nessuno ha mai sentito la necessità di rinvigorire il bielorusso, che esiste ma è usato da una minoranza della popolazione. Per le strade si parla in russo, nelle scuole si insegna in russo, la stampa è in russo, e nessuno rivendica l’uso della lingua bielorussa come elemento nazionalistico. Il sogno originario di Lukashenka, quando fece dimettere Shushkevich e iniziò a progettare la sua scalata, era quello di ricostituire un’Unione Sovietica in piccolo ma che avesse come centro Minsk. La cosa gli sembrava quasi probabile con Eltsin, del quale aveva poca stima, tuttavia svanì con l’arrivo di Vladimir Putin. Il presidente russo apprezzava molte cose di Lukashenka, ma soprattutto il fatto che non avesse mai voltato le spalle all’Unione Sovietica, neppure all’inizio della carriera politica, quando il suo partito, Comunisti per la democrazia, fu l’unico a votare contro l’accordo di Belaveža nel Parlamento di Minsk. Inoltre, in lui Putin ammirava la capacità di rimanere al potere, di aver fatto della Bielorussia un paese stabile, non come gli altri Stati ex sovietici affetti da continui tentativi di rivoluzione. Minsk era la purezza e agli occhi di Putin, arrivato alla presidenza quasi sei anni dopo, Lukashenka costituiva a suo modo un esempio. Doveva prendere lezioni dall’uomo che si era definito “l’ultimo dittatore d’Europa” e, dicono i bielorussi, anche la passione per l’hockey di Putin è nata per emulare Lukashenka. Non si sa quanto sia vero, ma sicuramente durante le partite a hockey i due hanno trovato un modo di intendersi e i loro scambi sul ghiaccio sono utili a capire come sono cambiate le dinamiche reciproche: da partite giocate regolarmente, lasciando alla bravura o alla sorte la vittoria, si è arrivati a una competizione che non ammette altro vincitore se non Vladimir Putin.

Se inizialmente il capo del Cremlino poteva nutrire una qualche stima nei confronti del longevo dittatore, con il tempo ha iniziato a ritenerlo un partner inaffidabile e un capo di Stato goffo e ingrato, al quale bisognava costantemente prestare soccorso. Quando Putin arrivò al Cremlino, Lukashenka aveva già firmato con Eltsin il trattato fondativo di un’unione tra Russia e Bielorussia che prevedeva una cooperazione economica, politica, commerciale e militare, e l’apertura delle frontiere. Presto il dittatore bielorusso si accorse che trattare con Putin non era come trattare con Eltsin. Il nuovo presidente del Cremlino aveva capito molto bene quanto Lukashenka avesse disperatamente bisogno di Mosca. Lukashenka, dal canto suo, ha trascorso anni a cercare di dimostrare il contrario, che era lui il vero sovietico e non il capo del Cremlino, a rassicurare i suoi concittadini che il loro modello sarebbe prevalso e che, anzi, il vero centro della fedeltà al passato era Minsk e non Mosca. Ne era davvero convinto, ma come aveva reso l’economia della Bielorussia dipendente dal Cremlino, aveva legato a Putin anche il suo destino politico.

Il primo giorno - Marc Levy

Stupire. Marc Levy riesce a stupire con ogni suo libro. Ci ha abituato a storie magiche e profonde (“Se solo fosse vero”, “Sette giorni per l’eternità”), a storie con fragranze d’amore e di amicizia (“Amici miei miei amori”, “Quello che non ci siamo detti”), a storie di drammaticità e intensità autentiche (“I figli della libertà”).
Ora, con Il primo giorno, questo autore francese ci stupisce con una storia d’avventura che parla delle piccole cose che determinano il corso dell’esistenza.
Il primo giorno uscito in Francia nel 2009 ha battuto tutti i record di vendita; e, sempre in Francia, è appena uscito il seguito, La prima notte che sarà presto tradotto in italiano.

È la prima volta che Marc Levy si cimenta con un genere avventuroso intriso di mistero. E la grande capacità di Levy è che riesce a farlo, mantenendo quel suo tocco fresco, con una penna leggiadra, che suscita emozioni e curiosità.
Il primo giorno è un romanzo che fa viaggiare il lettore dal Sud America al Corno d’Africa, dall’Europa all’Asia, facendogli scoprire le radici dell’uomo e dell’universo attraverso luoghi di una bellezza che sa essere candida, rude, paradisiaca, violenta.

La luminosa indole descrittiva di Marc Levy riesce a catturare l’attenzione del suo lettore, facendolo diventare protagonista, in giro per il mondo, insieme agli altri due protagonisti dei questa storia: Keira e Adrian.
E dal Cile all’Etiopia, passando per la Francia e l’Inghilterra, per andare in Cina, con una sosta in Grecia, il lettore scoprirà cosa comporta la ricerca dell’infinitamente piccolo nell’infinitamente grande, alla scoperta dell’origine dell’uomo e dell’alba.

Keira è un’archeologa, che cerca di datare la genesi dell’umanità. Adrian è un astrofisico, che fruga nel profondo delle galassie per scoprire come è nato l’universo, che cosa ne ha permesso la nascita della vita. Entrambi sono alla ricerca della risposta alla domanda “dove comincia l’alba?”
E la risposta a questa domanda, non solo è la piacevole causa che li rifarà incontrare dopo tanti anni, ma li porterà, anche, a intraprendere un lungo e pericoloso viaggio alla ricerca delle origini di un misterioso oggetto, un ciondolo che Keira porta al collo e che durante le serate di pioggia svela strani misteri.

Questo oggetto, un monile a specchio, nero e luccicante, in realtà è solo un pezzo di una mappa composta di puzzlefatti di altrettanti oggetti simili, capaci di svelare segreti, che forse l’umanità non è pronta a sentire. Per venire a capo delle loro ricerche, i due studiosi si addentrano nei territori più impervi del pianeta, per cercare di mettere insieme “ciò che quattrocento milioni di anni avevano diviso”.
Nel frattempo, alle loro spalle c’è un nemico occulto e potente, con orecchie e braccia sparse per il globo, che cerca di impedire, a tutti i costi, che Keira ed Adrian rimettano insieme il puzzle.
I due protagonisti metteranno a repentaglio la loro stessa vita, guidati da antiche leggende.

Il primo giorno è un romanzo coinvolgente, scritto con una rara semplicità stilistica, capace di accendere meraviglia e interesse, parlando dei segreti impenetrabili dell’universo.

Niente di vero - Veronica Raimo

Capita spesso che alcuni libri vaghino tra scrivanie e librerie senza essere letti immediatamente. Capita assai meno spesso che alla fine ci si chieda: perché non l’ho letto prima? Ecco Niente di Vero di Veronica Raimo appartiene alla seconda categoria. Perché si legge benissimo, perché può parlare di molti di noi, perché fa ridere non poco. E perché esorcizza il giusto che non fa mai male.

Veronica Raimo – come scrive nel romanzo – si sente un po’ forse una “fatina in crisi vocazionale“, ma dalla prima all’ultima pagina ogni situazione, parola, descrizione, personaggio è vero, esilarante, vitale anche quando depresso. A tratti feroce anche nel parlare di sesso, legami, perdite. Una sorta di romanzo di formazione che può tranquillamente accomunare tutte le quarantenni di oggi, specie se avevano l’ambizione di scrivere, dipingere, recitare. Racconta di come sono diventate grandi, sono diventate donne, all’interno di una famiglia comune, e per giunta comunemente colorita e difettosa. E lo chiarisce fin dall’incipit: “Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi“.

E gli “aguzzini” sono magnificamente ritratti. Dalla madre invadente che riconosce come unico principio morale la sua ansia, e che questa citazione ritrae magistralmente: “Quello della privacy è un concetto contro cui mia madre si è sempre battuta strenuamente. D’altra parte a casa nostra non c’era una sola porta che si potesse chiudere a chiave. Quando io e mio fratello parlavamo al telefono, lei si piazzava alle nostre spalle suggerendoci le risposte abitudine che non. ha perso negli anni e, ancora oggi, se ci capita di ricevere in sua presenza una telefonata sul cellulare, soprattutto se è una telefonata di lavoro, è ben lieta di offrire il suo contributo”. Al padre dalla doppia vita che innalza muri in casa e soppalca l’abitazione e la vita. Passando per il fratello che dal momento in cui si è accaparrato il ruolo di “genio di casa” le ha “concesso di vivere molto più tranquilla“.

Il mood, come si dice oggi, la scelta stilistica – difficilissima – di un tono comico, irriverente, dissacrante del mito della famiglia prima e delle relazioni poi, rendono il romanzo non solo divertente, ma caustico. Si riserva il potere che è proprio della risata di rivelare anche i segreti più oscuri, osceni (tipo visite da parenti sporcaccioni) e spesso celati. Ma poi riuscire a riderci su ne disinnesca tutto il potere negativo. Anche quello proprio delle storie d’amore finite malissimo: ricordandoci sempre che “le coppie smettono di esistere le persone no”. Ma soprattutto quel momento in cui siamo coscienti che dovremmo fare un passo in più e non ne siamo capaci (“Sono sempre stata aliena al concetto di <lasciarsi andare> per un motivo molto banale: non so dov’è che dovrei andare“, cit.). Concetto tanto caro al Woody Allen prima maniera e più amato, solo per fare un esempio, di quelli che fanno ridere.

Insomma, se il romanzo Niente di Vero l’avete in casa non aspettate oltre. Perché magari vi piace leggere chi si impone al Premio Strega o come me perché incuriositi anche un po’ dal giudizio che Zerocalcare – che mi fa sempre ridere – ha dato di Veronica Raimo: “è l’unica che mi ha fatto ridere ad alta voce con un testo scritto in prosa da quando ero adolescente”. Oppure incuriositi dalla “salomonica” frase in quarta di copertina: “La lingua batte dove il dente duole, e il dente che duole alla fin fine è sempre lo stesso. L’unica rivoluzione possibile è smettere di piangerci su“. Concedetevi questo libro vincitore dello Strega Giovani 2022: è invecchiato benissimo.

La gazza - Elizabeth Day

Ci sono argomenti che non si potrebbero spiegare così bene se non li si fosse toccati con mano. Forse non si riuscirebbe a entrare in quei meandri di pensieri confusi se prima non fossero stati i propri. Anche se sei una brava scrittrice, anche se hai una creatività fervida e sai giocare con le parole, ci sono soglie che molto probabilmente non si varcherebbero. Ma Elizabeth Day, celeberrima autrice inglese, classe 1978, il tema di questo suo nuovo libro, La Gazza, pubblicato da Neri Pozza, l’ha affrontato e sviscerato personalmente e per questo ne riesce a scrivere in modo così pregnante: in queste sue pagine si parla di maternità desiderata e di maternità negata, proprio come la sua.

Lei di figli ancora non ne ha, anche se è da diversi anni che ci prova e riprova: «E forse è proprio per questo», spiega, «che con il personaggio di Kate, la donna che non riesce a rimanere incinta, sento un’immedesimazione profonda: io ho passato 10 anni a fare inseminazioni, tutte fallite. Poi, in realtà, Kate non sono io, lei ha una personalità molto diversa dalla mia: è indubbiamente più sicura di sé, forse è come io avrei voluto essere. In tutto il tempo, che mi ha visto impegnata in quest’avventura dell’inseminazione, non ho mai letto nei libri di narrativa qualcosa che si avvicinasse a quello che stavo provando. Mentre credo che sia importante ritrovare nei libri le nostre esperienze, ci fa sentire meno soli. Anche Kate, che passa attraverso continue interruzioni di gravidanza, pur nel suo essere una persona strutturata, a un certo punto si sgretola ed è quello che io volevo appunto approfondire perché è quello che penso succeda a tutte. Purtroppo oggi viviamo in una società in cui, se non diventi madre in modo naturale e biologico, ti senti sbagliata, come se qualcosa di te non andasse, come se avessi una colpa. Le donne finiscono per vergognarsi della propria infertilità, e condividere il proprio disagio è importate. Poi, paradossalmente, proprio quella stessa società che ancora feticizza e sacralizza la maternità, è la stessa che non sa ascoltare le esigenze delle madri e spesso i governi trascurano i bisogni delle donne che hanno figli. Ecco, volevo che nel libro, si sentisse proprio questa tensione e questa ossessione continua».

Ma non pensa che ci siano diverse possibilità per amare in modo pieno, al di là dei propri figli biologici?
«Assolutamente sì e io so di essere fortunata: nella mia vita ci sono molti bambini a cui voglio tantissimo bene. Ma la gente non si accorge di quanto possa essere escludente: “Vedrai”, ti dicono “non conosci l’amore vero finché non hai un figlio tutto tuo”. Ecco, così ti fanno sentire inferiore, mancante, come se tu, appunto, non potessi mai sapere che cos’è l’amore».

Nel libro, su questo tema della maternità, si gioca anche un equilibrio mentale, si sconfina nella follia…
«Per me era importante scrivere una cosa realistica e proporre un rappresentazione il più accurata possibile dei vari problemi di salute mentale, con cui l’essere umano finisce comunque sempre per averne a che fare. Non è poi così difficile scivolare dentro delle difficoltà mentali: tutti i personaggi di questo mio libro, in un modo o nell'altro, hanno i propri problemi psicologici, che non vuol dire essere malati di mente, ma vuol dire comunque far i conti con un malessere. Ho chiesto una consulenza a un medico d'eccezione: mio padre, che mi ha guidata nelle descrizioni degli aspetti più sanitari».

I suoi libri hanno sempre un che di terapeutico: penso anche al suo famoso libro «L’arte di saper fallire». Quanto e come è importante l’empatia con i lettori?
«Direi più che importante, fondamentale. E in realtà confesso che scrivere di questi argomenti è stato molto terapeutico anche per me. Sul polso ho una frase tatuata: “Only Connect”, che E.M. Forster usò come epigrafe al suo romanzo Howards End. Indica appunto che bisogna entrare in sintonia gli uni con gli altri, che bisogna impegnarsi a creare connessioni. E credo che il mio ruolo come scrittrice sia proprio quello di avere un dialogo con i lettori, in modo che loro si possano sentire compresi. Spero che l’empatia si senta, pagina dopo pagina. Per scrivere La Gazza ho lavorato molto sui miei stessi sentimenti: questo libro mi ha aiutata a sfogare parte del mio dolore e della mia rabbia. L'ho iniziato a scrivere durante il lockdown e in contemporanea ho avuto il mio terzo aborto: è come se questo libro mi avesse aiutata a conservare la memoria di quel dolore, a condividerla e a capire che non bisogna avere vergogna. Per me è stato davvero terapeutico».

Nei suoi libri c’è sempre una sensazione di disagio, come se le persone si sentissero fuori posto: è una sensazione che lei prova o è una pura invenzione letteraria?
«Devo dire che oggi che ho 43 anni mi sento più a mio agio con me stessa, ma purtroppo il disagio l’ho conosciuto bene. Sono cresciuta in Irlanda del Nord all’inizio degli Anni Novanta, quando la tensione sociale si sentiva forte: io parlavo con un accento spiccatamente inglese e la cosa non era sempre ben vista. Quando ero alla scuola media sono stata bullizzata e cercavo di rendermi trasparente: non parlavo, ascoltavo e guardavo, ma non mi facevo mai avanti. E lo stesso è accaduto quando sono andata nella boarding school: non ero abituata a quell'upper class inglese e non ne conoscevo le regole sociali. E così, anche in quel caso mi sono sentita fuori posto. Per molti anni sono stata ansiosa, senza sapere davvero chi avrei voluto essere. Cercavo di adattarmi a quello che le persone si aspettavano da me, ma non ero felice: ho sposato la persona sbagliata, tanto che ho divorziato. Quando mi sono separata la mia vita è implosa, ma in un certo senso è stato un bene: ho dovuto capire chi fossi davvero, che cosa volevo per me, che cosa funzionava per la mia vita e che cosa no. E non credo che sia stato un caso che da quel momento il mio lavoro di scrittrice sia andato meglio, abbia avuto più successo. Anche il mio podcast sul fallimento è stato ironicamente il mio più grande successo. Ora mi sento molto più in contatto con me stessa rispetto a quanto non lo fossi da ragazza».

Lei ha molti follower su Instagram: quanto sono importanti i social network per lei?
«Io sono incredibilmente grata a Instagram. Senza Instagram il mio podcast non avrebbe avuto tutto quel successo. Oggi i social media sono l'unico modo per far conoscere a qualcuno un nuovo progetto. Poi credo che siano un mezzo molto creativo e mi diverte condividere lì le idee con le persone. Detto ciò non mi interessa condividere tutto quello che faccio su Instagram e cerco di difendermi: spesso metto il telefono in modalità aereo, non ho le notifiche, non ho le app dei social nella prima schermata del telefono e per trovarle devo andare in fondo. E comunque scelgo sempre con attenzione chi seguire. I social media raccontano sempre una parte della mia vita, non certo tutta la storia…».

Chi è il suo maestro letterario?
«Ad essere sincera non ho un vero mentore, non c'è una persona che seguo: diciamo che ho scoperto delle persone attraverso i loro libri e poi sono diventate dei riferimenti. Una di queste è sicuramente Elena Ferrante, che è stata rivoluzionaria: amo il modo in cui ha preso l'architettura dei racconti più classici, quelli scritti da antichi uomini bianchi, e l’ha usata sapientemente, mettendola al servizio della complessità sfaccettata e della brillantezza dell'essere donna. Poi citerei anche Elizabeth Jane Howard e il suo The Cazalet Chronicles: lei è stata una meravigliosa scrittrice. Anche lo scrittore Martin Amis, il cui padre è stato spostato con lei dal 1965 al 1983, l'ha ringraziata pubblicamente per averlo interessato ai libri e alla letteratura. Una grandissima».

L'equazione del cuore - Maurizio de Giovanni

Ognuno di noi si sarà chiesto almeno una volta, con la testa tra le mani sui banchi di scuola, a cosa servano tutte quelle nozioni e formule matematiche che gli insegnanti si affaticano a spiegare di anno in anno, ripetutamente, ai propri studenti: ebbene, lo scrittore Maurizio de Giovanni, nel romanzo L’equazione del cuore, rende questa materia apparentemente astratta quanto di più concreto e quotidiano possa esistere.

Il titolo, sintesi perfetta della trama del libro, si riferisce, in particolare, all’equazione di Dirac, secondo la quale, come riporta l’autore stesso, “se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma diventano un unico sistema”.

Il protagonista della vicenda è Massimo De Gaudio, professore di matematica ormai in pensione, che gli studenti erano soliti beffeggiare per via del chiaro conflitto tra il suo cognome e il suo carattere: Massimo, infatti, è descritto come un tipo solitario che porta dentro sé il fardello della perdita dell’amata moglie e che vede e sente poco la sua unica figlia, Cristina, trasferitasi ormai al nord Italia dopo il matrimonio con un importante imprenditore.

Sebbene Maurizio de Giovanni non fornisca subito al lettore precise indicazioni spazio-temporali, stimolando così la sua immaginazione e rendendolo una sorta di coautore della storia stessa, dalla lettura del romanzo si intuisce che Massimo vive a Procida; in particolare, la prima immagine che abbiamo di lui è quella di un nonno pescatore profondamente amato dal proprio nipote, tanto da diventare per lui un modello da seguire.

Ecco, dunque, la famiglia: è questo, matematicamente parlando, il primo sistema che viene presentato, i cui i vari componenti hanno instaurato tra loro delle relazioni affettive più o meno profonde e più o meno consapevoli. E Massimo, che vive la sua vita in maniera eccessivamente logica e razionale tanto da apparire una figura estremamente fredda e scostante, nonostante voglia dimostrare di essersene staccato, sa bene che in quel sistema è perfettamente incastrato, e non può non esserne influenzato.

Tuttavia, a svegliarlo da quell’apatia che aveva messo a protezione della sua stabilità sentimentale è la notizia di un tragico incidente stradale in cui a perdere la vita sono sua figlia Cristina con il marito Luca, e di cui l’unico sopravvissuto è proprio il piccolo Checco, suo nipote, che lotta tra la vita e la morte.

Qui la crisi: Massimo, pur non rinunciando alla sua rigorosa fede nella rigida logica matematica, a seguito di questo evento traumatico sarà costretto ad aprirsi al mondo; sarà lui, infatti, a dover indagare le cause e la dinamica dell’incidente, e questa volta non gli basterà agire e pensare seguendo degli schemi matematici.

E il merito di Maurizio de Giovanni in questo libro sta proprio in questo: per quanto il protagonista possa apparire odioso e antipatico, egli è allo stesso tempo in grado di suscitare nel lettore sentimenti contrastanti. Non si può, infatti, non provare dolore, compassione e persino affetto per una figura che affettuosa non lo è stata mai davvero, quantomeno non come ci si aspetterebbe che fosse, nemmeno in un momento così drammatico come quello che lo ha travolto improvvisamente.

Questo è probabilmente dovuto alla capacità di de Giovanni di raccontare, con frasi pulite e senza orpelli, la cruda realtà della vita umana: non esistono solo l’amore e le grandi passioni, ma anche l’abitudine, la freddezza, il distacco, anche nei rapporti famigliari più stretti.

Non esiste una norma unica e universale in grado di regolare i sentimenti; accanto alla forza c’è la debolezza; si può raggiungere la vetta e si può anche precipitare rapidamente.

La vita è caos, non è staticità, e forse la conclusione più giusta per questo romanzo è proprio quella che non c’è: de Giovanni, infatti, lascia che sia il lettore a continuare la storia. Se la vita è un flusso in continuo movimento, in costante cambiamento, non può essere soggetta a banali generalizzazioni, e allora non può esserci un finale uguale per tutti.

Le mogli hanno sempre ragione - Luca Bianchini

A Polignano il grecale minaccia l’evento che, ogni anno, apre le porte all’estate. Il maresciallo Gino Clemente, affacciato alla finestra di casa sua, a Port’Alga, pensa che ha sognato di vivere la festa di San Vito da comandante della stazione dei carabinieri del suo paese fin da quando era un bambino, ma mai avrebbe pensato che il suo desiderio si facesse realtà. E di lunedì, poi! La sua carriera nell’Arma lo ha portato prima a Firenze, poi a Parma e a Bologna. E ora, finalmente, alle soglie della pensione, è stato assegnato a Polignano a Mare. Un sogno che si realizza. Dell’esperienza in Emilia gli è rimasto Brinkley, un labrador dell’unità cinofila ormai in pensione che non lo molla un attimo. Clemente esce sul terrazzo e si rivolge in preghiera allo scoglio dell’Eremita, affinché gli venga in soccorso e plachi quel vento fastidioso. In paese tutti sono in apprensione, perché la processione per mare, appuntamento fisso legato alla festa di San Vito, è stata annullata nei due anni precedenti e, se dovesse accadere per la terza volta, allora sarebbe segno tangibile che San Vito è parecchio arrabbiato. La piccola luce che si scorge tra le nuvole gli infonde un briciolo di speranza e Clemente rientra in casa per indossare, grazie all’aiuto della moglie Felicetta, l’uniforme da cerimonia, con tanto di medaglie e sciabola. Prima di tutto, però, deve indossare il capo che è da sempre il must del suo guardaroba: la canottiera bianca. Felicetta è in cucina, intenta a friggere melanzane come se non ci fosse un domani. Ha invitato a cena un’amica vedova conosciuta attraverso un gruppo Facebook. In quel giorno di festa, preferisce starsene a casa sua con l’amica piuttosto che accettare l’invito inatteso di Matilde, che ha organizzato un’apericena presso la sua masseria in onore della nipotina. In realtà la festa di Matilde, ex signora Scagliuso, non è che un pretesto per fare sfoggio della meravigliosa dimora che lei e il suo nuovo compagno, Pasqualino, si sono regalati…

Luca Bianchini - autore torinese, ma con una profonda passione, assolutamente ricambiata, per la Puglia e i pugliesi - regala ai suoi lettori la puntata numero quattro dell’esilarante saga targata Polignano a Mare e annovera tra i protagonisti la famiglia Scagliusi e i diversi personaggi che le gravitano attorno. Attenzione, però. Se è verissimo che “squadra che vince non si cambia”, è altrettanto vero che Bianchini ama le sfide e adora sorprendere il suo pubblico. Questo è il motivo per cui, costretto all’isolamento a causa del lockdown che ha segnato la quotidianità di tutti come ben ricordiamo, ha preso in blocco la comitiva di personaggi che già conosce a menadito e li ha piazzati su un diverso palcoscenico, dalle tinte precise del più classico dei gialli. Ecco quindi che le vicende di Ninella e Mimì - prima consuoceri e ora una coppia alla luce del sole-, di Matilde e Pasqualino - nella masseria dei quali si snoda la trama- si sovrappongono a quelle del maresciallo Gino Clemente e della brigadiera Agata (velato, ma neppure troppo, richiamo ad Agatha Christie, i cui lavori Bianchini ha letto e studiato per definire meglio l’intreccio del suo romanzo) De Razza, chiamati a far luce sull’omicidio di Adoración, la tata peruviana degli Scagliusi, colpita a morte da un soprammobile a forma di angioletto della Thün. Le due new entry nel fantastico paese in provincia di Bari - quello in cui le case si aggrappano alla roccia con la stessa tenacia con cui gli abitanti si avvinghiano alle proprie tradizioni - sono estremamente interessanti: una passione incontrollabile per il karaoke e un’onnipresente canotta bianca per lui; una certa “cazzimma” e una poco celata nostalgia per il suo Salento per lei. I due si destreggiano tra non detti, pettegolezzi, maldicenze e segreti di Pulcinella, per arrivare a trovare il bandolo di una matassa assai contorta. Inutile sottolineare che Bianchini ha fatto di nuovo centro. È riuscito come sempre a dipingere ogni pagina del romanzo dei colori caldi e vivi di una terra accogliente e verace; ha saputo raccontare ogni sapore e ogni odore con immagini puntuali e azzeccatissime, che ogni volta colpiscono il bersaglio e restano nel cuore di chi legge. Ha mostrato le sfumature nascoste dei volti noti e tratteggiato il carattere dei nuovi protagonisti in modo così accattivante, da creare nel lettore l’immediata curiosità di saperne di più e il desiderio di leggere presto le nuove avventure di Clemente e della De Razza.

Brave ragazze, cattivo sangue - Holly Jackson

Ogni volta che torna a casa le sente, come se fossero reali. Pip lo sa che non si tratta di qualcosa di tangibile, ma solo di un gioco della sua mente che colma il vuoto e cerca di compensare l’assenza. Ma Pip le sente, le unghie di un cane che raspa e che corre per darle il bentornato a casa. In realtà ad accoglierla c’è la madre che la attende in cucina, mentre suo fratello Josh è in salotto, seduto a terra a mezzo metro dalla TV, che curiosa tra le pubblicità di Disney Channel. La mamma comunica a Pip di essere stata convocata da Flora Green, la nuova assistente didattica della scuola di Josh. È accaduto che il temperamatite di Camilla Brown è scomparsa e Josh si è messo all’opera senza indugi: ha interrogato i compagni, ha cercato le prove e ha stilato una lista dei sospettati. Il risultato è che ha fatto piangere quattro bambini. È assolutamente necessario che Pip parli al fratello, che, evidentemente, la vuole imitare. Pip si è infatti resa protagonista di una vicenda, mesi prima, che l’ha vista vestire i panni di detective e, insieme a Ravi Singh, ha convinto le autorità a riaprire un caso apparentemente chiuso – l’omicidio della teenager Andie Bell, a opera, si presumeva, del suo ragazzo Sal Singh – e a scoperchiare sospetti e scomode verità. Pip si avvicina a Josh e gli spiega che fare il detective non è lo spasso che sembra, anzi è qualcosa di piuttosto brutto. Quando si decide di essere detective, le persone possono farsi male e arrecare danno agli altri, anche senza volerlo. Ecco perché lei ha deciso di smettere, ed è il caso che lo faccia anche lui. A essere sinceri, non occorre molto tempo a Pip per convincere Josh. E per fortuna, perché sta per arrivare Ravi. Ha appena finito in tribunale. Pip avrebbe voluto essere con lui, ma non è stato possibile, perché c’è la scuola, le ricorda la mamma. E poi lei ha già dato, martedì scorso, il primo giorno del processo al tribunale di Aylesbury. Pip si è presentata con un tailleur nuovo e una camicia bianca. Ricorda ancora il tremolio alle mani e il sudore lungo la schiena. E, soprattutto, sente ancora su di sé lo sguardo che le scivola sulla pelle nuda. Lo sguardo di Max Hastings...

Seconda puntata del thriller young adult frutto della fantasia e della penna di Holly Jackson – autrice inglese, che ha ottenuto un incredibile successo con il primo episodio della serie – che conferma la sua abilità nel narrare con semplicità ed estrema lucidità il mondo dei giovani, le loro contraddizioni e i loro punti di forza. La protagonista Pip, coraggiosa investigatrice nella precedente storia e resa tanto celebre da decidere di registrare un podcast che rappresenti l’ultima appendice di un passato prossimo le cui ferite sono ancora aperte, si trova suo malgrado nuovamente coinvolta in un’indagine: la scomparsa di un amico la spinge – nonostante avesse deciso di lasciarsi alle spalle misteri e orrori – a rimettersi in gioco, per sciogliere i numerosi nodi legati alla vicenda. Il mondo digitale – fatto di mail, video, messaggi, post – diventa strumento attraverso cui Pip si rivolge a chiunque possa darle una mano; la comunicazione diventa quindi universale e immediata; le emozioni si condividono e diventa difficile riuscire a tutelare la propria interiorità e individualità. Holly Jackson è riuscita una volta ancora a dare vita a una storia moderna, in cui la trama tipica del thriller si mescola a contenuti più contemporanei, veicolati dall’utilizzo di registri diversi e moderni – interviste, fotografie, articoli di giornali, podcast – che catturano l’attenzione del pubblico cui il libro è rivolto, quello degli young adults, e non solo. Una lettura ritmata e accattivante, che affronta temi importanti e presenta una serie di personaggi che bucano la pagina: ragazzi sensibili, legati a valori solidi come la giustizia; giovani alla ricerca della verità e di un sostegno che possa aiutarli nel cammino verso la maturità e l’età adulta. Una storia che incuriosisce e appassiona; una scrittura moderna e interessante; un romanzo avvincente tanto quanto il volume che l’ha preceduto. E bissare il successo non era affatto scontato.

Nella notte - Concita De Gregorio

Il romanzo ha per protagonista una giovane studiosa che ha scritto una tesi su un importante episodio della storia politica italiana recente, e viene coinvolta in misteri e intrighi che hanno sullo sfondo riflessioni e questioni sull’uso di informazioni vere e false da parte di vari “poteri” insediati a Roma. Malgrado i nomi fittizi e gli sparigliamenti di alcuni aspetti e biografie, i lettori riconoscono con facilità i personaggi politici più importanti degli ultimi due decenni, e la vicenda della mancata elezione di Romano Prodi a presidente della Repubblica nel 2013. Nel terzo capitolo la protagonista Nora parla di Agostino, autista di politici, e di come aveva passato la notte del titolo, quella in cui appunto venne discussa la possibile scelta di “Onofrio Pegolani” per la presidenza.

Agostino mi aveva raccontato l’aneddoto del vestito.
Fu per questo – anche per questo – che mi convinsi: la notte della congiura sarebbe stata l’argomento della mia tesi di dottorato. Ero andata a Roma a cercare tracce di quella trama recente ma già svanita, sepolta in fretta senza lapidi. Non sapevo con precisione da dove cominciare, cosa chiedere, a chi. Montecitorio, per prima cosa. L’archivio. Studiare l’archivio. Così cercai Agostino, e seppi del vestito.

Il vestito nuovo del Presidente, il vestito inutile: sbagliato. Mi aveva fatto immalinconire e ridere insieme, mi aveva ricordato la filastrocca del re Dagoberto. Le bon roi Dagobert, una canzoncina che ci insegnavano all’asilo, quando vivevo in un piccolo paese del Piemonte. Le bon roi Dagobert a mis sa culotte a l’envers, ha messo i pantaloni al contrario. Le grand saint Éloi lui dit “Ô, mon roi. Votre Majesté est mal culottée”. Mal culottato – i bambini ridevano contentissimi di poter dire ad alta voce culo, cantarlo addirittura. I pantaloni al rovescio. Quand Dagobert mourut le diable aussitôt accourut. Arriva subito il diavolo, quando muore il re. Così ti dicono le filastrocche a quattro anni: muore il re, e il diavolo viene subito a chiedergli il conto. Il Paradiso è escluso per principio, non è proprio una possibilità. Presto, Maestà, deve confessarsi: sta arrivando Satana, si affretta a dirgli colui che lo protegge, il premuroso e solerte grand saint Éloi. “Hélas, lui dit le roi. Ne pourrais-tu mourir pour moi?” Questo insegnano precoci, le rime che impari prima ancora di saper leggere e scrivere: non solo il re ha di certo commesso peccati mortali che lo condannano all’inferno, ma in punto di morte chiede a qualcun altro di morire al posto suo. Non sa mettersi i pantaloni, ha commesso peccati mortali e chiede a qualcun altro di morire al posto suo.
È sciocco, crudele e vile – il re.

Agostino faceva l’autista da più di trent’anni. Al servizio del Presidente, diceva con orgoglio. Quale presidente? I presidenti passano, io guido e resto – rideva.
L’avevo conosciuto al mio secondo anno di università. Preparavo una tesina per Storia delle Dottrine Politiche, mi serviva un carteggio custodito nell’archivio della Camera. Mi presentai all’ingresso laterale di Montecitorio con il fax di autorizzazione disteso liscio in una custodia di plastica trasparente. Portavo un vestito a fiori di mia madre stretto in vita da una fascia con bottoni di tessuto. Fondo chiaro, fiori rossi. Avevo delle scarpe nuove, di camoscio, che mi facevano male. Volevo assolutamente sembrare più grande, e seria, ed essere presa sul serio. Pensavo che un vestito démodé e delle scarpe bordeaux potessero aiutare.
Agostino era lì, appoggiato a fumare allo stipite della porta del garage, in fondo alla scala che porta sul retro del palazzo. Mi guardava con una specie di sorriso negli occhi, senza malizia.
Che ti manca?
Niente, no grazie, niente. Solo che forse non ho portato il documento. Ho cambiato borsa, e allora… Non so, dev’essere rimasto nell’altra.
Mi chiese se volevo un gelato. La gelateria qui di fianco è buonissima e celebre, la conosci? Di dove sei? Ah, vieni da Pisa. Ci sono stato in viaggio di nozze, Pisa Firenze Siena.

Gli autisti sanno tutto di tutti. Ascoltano le telefonate, le conversazioni nel sedile posteriore, conoscono gli indirizzi di chi non ha il nome sul citofono, le case segrete del potere.
Sanno chi va dove e perché, per quanto resta, a fare cosa. Chi siede dietro per qualche misteriosa ragione pensa che l’autista non esista, mi disse Agostino. La panna del gelato mi era caduta sul vestito di mamma, lui fece un gesto come per dire la macchia se ne va, tranquilla. È molto raro, disse, molto raro che i passeggeri dell’auto ti rivolgano la parola. In genere parlano come se tu non ci fossi. Non hai idea di quello che hanno sentito le mie orecchie, visto i miei occhi.

Ogni tanto, due o tre volte all’anno, mi arrivava un suo messaggio:
Come procedono gli studi, ragazza? A che punto siamo? Manca poco Agostino: torno a Roma per il dottorato.

E così siamo alla fine. Il dottorato, addirittura. Una ricerca su Onofrio Pegolani. Ma pensa. Ero con lui quella notte, sai? Sono andato io a prendere il vestito.
Che vestito? Raccontami.
Sì. Sediamoci, lo vuoi un gelato? Non hai fretta, no? Sediamoci e ti dico. Stai a sentire.

Il Presidente era stato tutto il pomeriggio nello studio del suo principale avversario – lui cattolico democristiano, l’altro ateo comunista –, una vita a contendersi incarichi e potere, campagne elettorali e collegi. Coetanei, vecchie scuole. Le Frattocchie, la Camilluccia. Gli ultimi di quel mondo lì, quando i partiti erano tre, massimo quattro, e si chiamavano tutti partiti. Niente animali fiori frutta. Niente leghe e movimenti. Partiti. Un certo rispetto reciproco, nella diffidenza. Si diceva che fossero tutti e due in corsa per la presidenza. Io lo sapevo per certo: avevo sentito una telefonata furibonda in cui diceva “a me non mi fregate, io quello lo conosco, mi vuole fottere. Ma quale intesa, quale patto. Ha sempre fatto solo il gioco suo da quando aveva i calzoni corti. Io me lo ricordo. Se non mi date l’elenco completo dei nomi, tutti, io non ci credo”. Però invece si vede che parlandoci si era convinto.
Quasi tre ore, era stato su. Qualcosa doveva essere successo, qualcosa che lo aveva persuaso. E guarda che la diffidenza era enorme, e la cautela, e tutto. Insomma fatto è che appena salito in auto mi diede l’indirizzo di un palazzo dietro Borgo Pio, alle spalle del Vaticano. Un posto dove non eravamo stati mai. Telefonò. “Tutto a posto. Convergono su di me. È fatta. Sto arrivando e ti spiego.” Restò su mezz’ora. Quando tornò in macchina aveva in mano un foglietto di quaderno a quadretti piegato in due, lo poggiò sul sedile per telefonare. Chiamò la moglie: “Vieni a Roma col primo treno domattina, Ada. Vieni con mia madre, avvisala tu e valla a prendere. Vi faccio trovare i passi all’ingresso, i commessi vi porteranno al vostro posto. Alle otto inizia la seduta, mi raccomando. Il treno delle sei e mezzo, dovete prendere”.
Poi chiamò il negozio. “Quell’abito che avevo visto giorni fa, si ricorda? Ecco. Vengo per l’orlo ma dobbiamo farlo subito, entro domattina. Avete una sarta che lavori la notte? Arrivo. Sto arrivando.”

Da Cenci rimase venti minuti, forse meno. Il tempo di misurare l’orlo dei pantaloni.
“Domattina, Agostino, prima di venire a prendermi a casa vai tu a ritirare il vestito: a questo indirizzo, alle sette meno un quarto. Devi chiedere della signora Rosa.”
Mi lasciò l’appunto che gli aveva scritto il direttore del negozio, la via e il numero, il cognome sul citofono. Ci furono molti altri viaggi, quella notte. Un momento in ufficio, mezz’ora al ristorante con lo staff, di nuovo nello studio del Comunista, sarà stata già mezzanotte. Continuava ad arrivare gente, a orari scaglionati. Ogni quarto d’ora qualcuno. Le auto parcheggiavano in via Giulia e gli autisti restavano con lo sportello aperto, a fumare. Ne riconobbi solo uno, Aldo, che per una vita era stato al servizio del segretario socialista. Poi – morto il segretario, sparito il partito – era rimasto con i figli, a volte portava a scuola i nipotini del vecchio leader, ci era tanto affezionato. Aldo quella sera aveva accompagnato un vecchio comunista migliorista. Gli altri erano giovani, portavano giacche lucide, avevano scarpe con la punta quadrata e stavano fra loro. Gente che non avevo mai visto. Girava voce che i nuovi arrivati, al governo, avessero preteso come autisti agenti dei servizi. Poteva essere. Comunque non li conoscevo. Restammo a parlare, con Aldo, fino alle tre e mezzo di notte. Erano le quattro meno dieci quando diedi la buonanotte al Presidente, davanti al portone di casa sua. Non sembrava stanco, per niente, alla sua età. Ero più stanco io.

Alle sei e mezzo suonai a Rosa. Terzo piano senza ascensore. Mi ricevette in cucina, la caffettiera era sui fornelli spenti in attesa del risveglio di qualcuno, pensai avesse figli a cui preparare la colazione prima di scuola. Aveva trovato nella tasca dei pantaloni un foglio, me lo porse. Una pagina di quaderno piegata. Dovevo dire al Presidente che non era riuscita a stringere in vita oltre un certo punto, avrebbe avuto bisogno della cinta. Del resto bisognava ridurre tutto il pantalone di una taglia, continuò, era la taglia sbagliata, avrebbe dovuto prendere quella sotto, lei in così poco tempo aveva fatto il possibile. Forse sarebbe stato meglio comprare un altro abito, della taglia giusta. Lei aveva fatto il possibile.
Grazie signora, grazie.
Misi in tasca il foglietto, scesi le scale. Ero ancora nell’androne quando squillò il telefono. “Agostino, non si affretti col vestito. Non serve più.”
Le sette meno un quarto.
“L’ho già con me, Presidente. L’ho appena poggiato in macchina.”
“Va bene, non importa. Venga pure a prendermi alle nove e mezzo, stamani.”
“Ma Presidente, la seduta plenaria inizia alle otto. Scusi se mi permetto, ma…”
“Agostino, alle nove e mezzo. Grazie. Non andiamo a Montecitorio, andiamo a Rieti. Torniamo a casa.”

Feci qualcosa che non faccio mai. Aprii la pagina di quaderno. C’erano appunti presi a mano, cancellature, qualche parola in stampatello, qualche sottolineatura. Potevo leggere perfettamente la calligrafia del Presidente, a volte meglio di lui. Sai quante volte mi ha chiesto: “Agostino, scusi cosa ho scritto qui?”.

È con grande onore e con preciso e pieno senso di responsabilità che accolgo l’esito della votazione del parlamento sovrano, cominciava il discorso.

Il parlamento sovrano. Il re, crudele e vile. Le bon roi.

Le madri non dormono mai - Lorenzo Marone

Un intenso e commovente romanzo corale, un cantico degli ultimi, gli invisibili dimenticati, i bambini incarcerati con le loro madri. Lorenzo Marone, con la sua grande sensibilità di narratore, da voce alle infanzie rubate e alle storie di donne vilipese che abitano la realtà poco conosciuta degli ICAM, istituti a custodia attenuata per detenute con minori. Un racconto poetico e struggente, uno spaccato d’umanità che risuona dalle sue ferite più profonde, fra inquietudini e violenza, sogni inevasi e bisogni di riconoscimento, esplorando i confini fra libertà e costrizioni – del reale e dell’anima.

Diego ha 9 anni e ha imparato a campare di poco, un corpo goffo e l’affanno perenne in petto per un cuore debole e per il gran bisogno di essere accettato. Quando sua madre viene incarcerata per aver nascosto merce rubata del padre, il bambino si trova fuori dalla ferocia della Napoli dei quartieri di spaccio e delinquenza che l’aveva fatto sentire di cartapesta, incapace di difendersi dai bulli. Convinto che il tormento sia nell’ordine delle cose, ferito e spaurito del vivere, Diego aveva imparato a rendersi invisibile; ma in quel piccolo cortile dove essere il più grande lo fa sentire l’ammirato condottiero dei piccoli reclusi, gli prende la smania di esistere per qualcuno.

Era come la pianta che si ambienta nel posto giusto e d’improvviso, da sola, si mette in testa di fiorire.

Miriam, sua madre, è una donna dalla bellezza incandescente che la fa eterna preda costringendola a difendersi, un felino in allerta, un arco teso con la guerra stipata nel cuore, che la furia dei respinti ha inaridito e reso indifferente all’incontro: s’appuntava sul viso la scortesia, alzava un muro di diffidenza, ché … la fiducia è atto più elevato dell’amore, è cosa per pochi. Una corazza che la escludeva dalla vita, la convinzione profonda di dover essere infelice, perché nell’infelicità trovava la migliore giustificazione alla propria condizione esistenziale.

L’indifferenza non è per chi non crede, ma per chi ha creduto, seppure per poco, e non crede più.

Miriamè una madre che di gentilezza non s’intende e che, nell’eterno dubbio di fare del figlio un debole, non riesce a dimostrargli il bene. Ma in quella reclusione dove si confronta con altre donne e vede suo figlio in una luce diversa, si domanda se i suoi modi duri siano tossici, se il suo stesso insegnamento, la violenza e la paura che erano anche sue, o magari l’accettazione passiva di quel ruolo subordinato, siano la quota di responsabilità delle madri a crescere figli maschilisti e violenti.

Miki è una guardia carceraria senz’armi né divisa, che negli occhi di Miriam riconosce il suo stesso convincimento, quello che tocca agli sfortunati: che l’altro sia il nemico da sconfiggere, e che dentro ogni essere umano ci sia un diavolo impossibile da estirpare. Un uomo che ha alle spalle la sua quota di fallimenti e sogni troppo grandi, una tenera identificazione con i piccoli e un magma di pulsioni feroci da domare quando si trova davanti alle donne, da sopraffare o sentirsene in soggezione com’era con sua madre. Un uomo che sta con poco merito e molta fortuna dalla parte dei giusti… con un piede costantemente nel precipizio, esposto ai suoi demoni e alle dolorose fatiche di convivere con la parte di sé che non corrisponde alla persona che vorrebbe essere.

A lui il piccolo Diego si rivolge con la sua fame di una figura paterna, per specchiare l’esibizione del crescere. Poi c’è la piccola Melina, che ha negli occhi lo stupore del vivere e custodisce un quaderno delle parole belle, che gli diventa sorella, stanando anche l’affettuosità di Miriam. E Greta, la psicologa che insieme ai volontari contribuisce a rendere la permanenza ai bambini il meno traumatica possibile in quell’istituto incastonato fra i monti. Anche lei ha le sue pene da portare, mentre ascolta quelle donne chiuse, mutilate, corpi vuoti, anime silenti e rabbiose, che per poco amore ricevuto s’erano fatte aride, dure come la scorza del pane vecchio, vite in cui la maternità può essere rimasta una forza riparatrice.

Esistenze che semplicemente scordavano d’adoperarsi a cambiare le cose, e lasciavano che fosse il tempo a decidere per loro. Un tempo da lasciare passare in carcere, in un disordine sgraziato di suoni, una patina di rumori a scandire ore sempre uguali.

Un mondo nel quale bene e male non avevano più definizioni nette, e tornava difficile per chiunque districarli, trovare il senso profondo di ciò che avveniva.

L’Autore, che ha tratto ispirazione per la sua storia dalla visita all’Icam di Lauro, nella terra d’Irpinia, ha immaginato cosa significasse per un bambino vivere lì dentro, se quelle creature costrette a crescere prima del tempo s’avvertono prigionieri o se la fantasia li fa salvi, se pure dentro a un carcere resta in loro intatta la capacità di scorgere l’intero firmamento in un piccolo cortile scalcinato.

A chi, prigioniero per nascita, s’inventa il modo di essere libero, scrive in esergo.

Ma il romanzo non fa sconti di pena alla durezza della realtà.

Diego, che stava nella guerra di sua madre senza volontà, come il soldato pronto a disertare, un bambino troppo buono per odiare, che sapeva del male per eccessiva sensibilità e s’impegnava a non farlo agli altri, a scuola reagisce a un’offesa traboccando della sua ribellione sopita, della disperazione muta che lo abitava, e precipita nell’aggressione come un fiore maltrattato dal temporale. Il rione l’aveva ghermito, gli aveva dato in dote un’identità fondata sul nemico, dal quale per l’intera vita sua avrebbe provato invano a difendersi. E poco contava che fosse tra i perseguitati, che di colpe non ne avesse, e che da innocente s’arrabattasse a individuare una via di fuga: la violenza e la rabbia non facevano distinzioni tra oppressori e oppressi.

E quando poi, al compimento dei suoi 10 anni, deve lasciare quel luogo che era stato il più simile a una casa per lui, è la disperazione: sentire di aver avuto in prestito un’idea in cui sperare, un po’ di vita buona e ora gli toccava restituire tutto, perdendo quello sguardo materno che lo ancorava al mondo. Avrebbe fatto ritorno al rione, barattando l’ingenuità con la disillusione, smerciando la sua vita al prezzo più vile, come se non valesse nulla. A tentare come poteva di essere adulto, di resistere senza sua madre alle ingiurie della vita e degli uomini.

È un romanzo che sa mirabilmente guardare al mondo attraverso gli occhi delle donne e dei bambini, coinvolgendo il lettore nelle vite dei suoi personaggi, raccontando le debolezze e i drammi umani con delicata profondità, che ha la capacità di entrare nella complessità ed esplorare ciò che sta dietro, le ragioni dei torti, dell’inascoltato.

Sospendendo il giudizio, permettendo il lasciare emergere, dando voce.

Come fa il mestiere della cura.

L’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire com’è fatta la prigione, scrive in esergo da Calvino.

Questo è un libro che parla anche delle prigioni del dentro, con i suoi condizionamenti, le costrizioni, i labirinti delle colpe e delle pene, i percorsi delle responsabilità.

Una scrittura che è anche impegno sociale a portare l’attenzione sulla vita di bambini cui è sottratto il tempo della crescita e che rischiano di diventare dei segnati a essere senza potersi salvare. Un libro che sostiene l’immaginare un mondo come lo si vorrebbe per renderlo possibile, perché nessuno dovrebbe rimanere senza aiuto.

“La povertà più grande non sta nel non avere un pezzo di pane o un tetto, ma nell’essere un individuo isolato, che non fa parte di alcuna comunità e che non ha obiettivi. In una parola, nell’essere nessuno.”

Così Claudio Abbado commentava l’iniziativa del maestro José Antonio Abreu che a Caracas consegna a 11 bambini uno strumento musicale insegnando loro a fare musica. Da lì principia il moltiplicarsi nazionale di orchestre giovanili noto come El Sistema, che raccoglie bambini e ragazzi dei barrios, i quartieri più degradati dei centri urbani, marcati dalla violenza delle gang con i suoi circuiti di criminalità ed esclusione.

Quello a cui Abreu ha dato inizio è il microcosmo di una società ideale che ha rimesso al centro l’affermazione dei diritti dell’infanzia, riconsegnandole dignità attraverso l’arte e soluzioni che hanno dimostrato di poter disinnescare la socializzazione della violenza. E lo ha fatto al di fuori di una logica assistenziale, fornendo ai ragazzi una capacità e l’opportunità di un riscatto esistenziale, perché i più grandi, imparato a suonare, hanno insegnato ai più piccoli, diffondendo capillarmente il progetto e promuovendo nuovi codici di convivenza nei propri contesti socioculturali. La musica, divenuto un bene comune come l’acqua, permette ai giovani di scegliere un’altra partitura, una diversa traiettoria di senso nella propria esistenza.

A chi, prigioniero per nascita, si può aiutare a inventare il modo di essere libero.

Il messaggio di cui il romanzo di Marone si fa portavoce è come pensare misure alternative al carcere per questi bambini, esperienze che possano divenire un’occasione per dirigere nuovi progetti di vita, edificando valori e traiettorie diversi da carriere criminali.

Perché ogni atto violento ha una storia che va conosciuta per poterne comprendere il significato.

Una logica cui lavorano i programmi di giustizia ripartiva, che guardano alla responsabilità fuori dalle categorie statiche dell’essere responsabili di qualcosa e per qualcosa, per abbracciare una dimensione relazionale dell’essere responsabili verso qualcuno.

Bucaneve - Mélissa Da Costa

La possibilità di ricominciare, sempre.

E' un tema che torna in tutti i libri di Melissa Da Costa, tra i dieci autori più venduti in Francia negli ultimi anni. In Bucaneve, uscito per Rizzoli nella traduzione di Elena Cappellini, che la scrittrice, 32 anni, è venuta a presentare in Italia, la ventenne Ambre ritrova se stessa in un paesino delle Alte Alpi francesi dove si immerge in un micromondo di sogni e delusioni e le persone che incontra hanno come lei dolori che pesano.

"Ho dovuto scrivere quattro libri per capire che in ogni mio romanzo c'è un dramma che porta a un nuovo inizio. Ci sono migliaia di persone che decidono di fare una vita altrove, di andarsene. Si può fare questa scelta ed è un diritto" racconta Da Costa della quale Rizzoli ha pubblicato nel 2021 I quaderni botanici di Madame Lucie e nel 2022 Tutto il blu del cielo.

"Il cambiamento geografico, dell'ambiente che ci circonda, delle persone e degli amici ci consente di mettere da parte i nostri demoni, tutte quelle parti di noi che non amiamo.

Coincide con questo desiderio il momento in cui si decide di fuggire. C'è la possibilità di reinventarsi, di creare una nuova immagine" spiega.

Racconto sull'amicizia e sulle seconde possibilità, dove il paesaggio ha una forza potente e benefica, Bucaneve è un romanzo a cui la Da Costa è molto legata, il primo che ha scritto. "Avevo più o meno l'età della protagonista e mi ponevo lo stesso tipo di domande. Quando lo ho ripreso in mano, dieci anni dopo, mi ha fatto un certo effetto. Ci ho lavorato oltre un anno, ho modificato e aggiunto alcune parti, ma l'anima della storia è rimasta la stessa" dice la scrittrice. Ambre per un anno è stata l'amante ragazzina di Philippe, un quarantenne, professionista affermato e padre di famiglia.

Sopraffatta da quell'amore che le offre pochi scampoli di intimità e dal vuoto che porta con se, tenta di farla finita.

Philippe, già distante da lei, le offre una via di fuga trovandole una sistemazione ad Arvieux, sulle Alte Alpi francesi, come cameriera stagionale in un albergo. E' qui che conoscerà Tim, aiuto cuoco gay che la famiglia rifiuta; Rosalie, giovane madre single che soffre di fobia dell'abbandono e Wilson che preferisce la natura agli umani. Con loro Ambre riuscirà, come un bucaneve che esce dalle superfici innevate, a uscire dalla sua solitudine e rinascere.

"Ho iniziato a immaginarmi, a figurarmi come vivono le persone che lavorano come stagionali, che di sei mesi in sei mesi cambiano tutto e non hanno sicurezze. Sono arrivata a scegliere di fingere di essere in quel modo. Ero tentata di cambiare alcune cose del comportamento di Ambre, ma poi ho pensato che rispondevano in modo più veritiero ai sentimenti di una giovane donna di quell'età" dice la scrittrice che durante la pandemia, per un anno, non è riuscita a scrivere. "Mi sembrava di soffocare" afferma.

Bucaneve "avrà un seguito che uscirà l'anno prossimo" annuncia.

Il borghese Pellegrino - Marco Malvaldi

A cinque anni di distanza dal suo primo, fortuito, caso criminale (raccontato nel precedente Odore di chiuso), Pellegrino Artusi è ospite di un antico castello che un agrario capitalista ha acquisito con tutta la servitù, trasformando il podere in una azienda agricola d’avanguardia. È stato invitato perché è un florido mercante, nonché famoso autore della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, il libro con cui codificava la cucina italiana e contribuiva anche, con i sapidi aneddoti uniti alle ricette, a diffondere nei tinelli delle case la lingua nazionale.

Oltre al proprietario, Secondo Gazzolo, con la moglie, completano il gruppo altri illustri signori. Il professor Mantegazza, amico di Artusi, fisiologo di fama internazionale; il banchiere Viterbo, tanto ricco quanto ingenuo divoratore di vivande; il dottor D’Ancona, delegato del Consiglio di Amministrazione del Debito Pubblico della Turchia; Reza Kemal Aliyan, giovane turco, funzionario dello stesso consiglio; il ragionier Bonci, assicuratore con le mani in pasta; sua figlia Delia che cerca marito ma ancor più avventure. Riunisce tutti non solo il fine conviviale, ma anche un affare in fieri. Sono infatti gli anni d’inizio secolo in cui la finanza europea si andava impadronendo del commercio internazionale del decadente Impero Ottomano. Accade che, tra un pranzo, un felpato attrito di opinioni e interessi, un colloquio discreto, viene trovato morto un ospite; è chiuso a chiave in camera da letto ma il professor Mantegazza è sicuro: è stato soffocato da mani umane.

Circostanze che non collimano, passaggi segreti, colombi viaggiatori, tresche clandestine, fanno entrare ed uscire dalla scena, o agire coralmente, i personaggi, con la vivacità di un teatro brillante. E si adatta al luogo una sfumatura di gotico, in ironico contrasto con l’atteggiamento scientista all’epoca di gran voga.

Marco Malvaldi, l’autore de Il borghese Pellegrino (Sellerio), si sente a proprio agio nell’ambiente fiduciosamente positivistico dell’epoca, rappresentato con allusiva esattezza (nell’epilogo del romanzo si spiega come tutto il contorno è storicamente vero). D’accordo con il suo eroe Pellegrino Artusi considera la buona cucina una branca della chimica, una scienza complessa, rigorosa e stuzzicante quanto la sublime arte dell’investigazione.

Quattro galline - Jackie Polzin

Quattro galline: Hennepin County, Gam Gam, Gloria, Testanera. Quando noi vediamo un gruppo di animali, che sia un gregge di pecore al pascolo, una mandria di cavalli al galoppo in un maneggio o un gruppo di galline in un pollaio, pensiamo sempre che, al di là del colore del pelo o delle piume, siano animali più o meno tutti uguali. Provate a chiederlo ai loro padroni: il fatto stesso di dare un nome a un animale, anche se, come le galline, non risponderanno se le chiami, significa distinguerle dal resto, significa conoscerle, significa volergli bene. Lo sa la voce narrante di questo libro, una donna di una certa età che vive insieme al marito in un quartiere non proprio signorile di un paese del Minnesota.

Leggendo questo libro scopriamo un po' per volta le varie caratteristiche di questo pollaio, ovvero che Hennepin County è la gallina alfa, Gam Gam è quella timida che aspetta in un angolo finché le altre non hanno finito di mangiare (e anche per questo, per il suo essere fragile, è la più amata dalla coppia), Gloria è lenta e si distrae facilmente, Testanera è casinista.

"Sono nata e cresciuta in un piccolo paese di campagna, dove era normale vivere con qualche animale in casa perché ognuno di essi aveva una funzione per la famiglia: oltre a un paio di mucche, i conigli, il maiale e il cane, allevavamo sempre, con mia grande soddisfazione, una decina di galline. Erano il mio passatempo preferito, compagne dei miei giochi all'aria aperta, meraviglia dei miei occhi nel trovare le uova calde dal guscio poroso. E come tutti i bravi “proprietari” di animali davo loro un nome. In particolare ricorderò per sempre Messicana, l'unica gallina nera in un pollaio di rosse, con le piume belle e luccicanti.

Una gallina sana brilla. Le piume appartengono alla categoria degli elementi luminosi in natura"

In questo libro si dipanano varie caratteristiche di questi volatili terrestri spesso date per scontate o persino ignorate. Le galline mangiano sassi, perché, essendo uccelli triturano il cibo nel ventriglio; temono il troppo caldo ma hanno bisogno di stare al sole, e dal colore delle orecchie si deduce quello delle uova.

Questo libro, però, non è un trattato sulle varie caratteristiche delle galline, ma il tema sottostante che lo pervade di pagina in pagina è invece la maternità, più precisamente la mancanza della maternità. Il titolo originale in effetti è Brood, che tradotto letteralmente in italiano è “covata”. La nostra protagonista non ci nasconde quanto avesse desiderato un figlio e quanto avesse sofferto per un aborto spontaneo.

"La bambina sarebbe dovuta nascere il trenta di settembre. Anche se era una data indicativa, per me è ancora il giorno in cui mia figlia non è nata"

Non per questo è un libro triste, anzi, è pieno di vitalità e ironia, filosofico se vogliamo, ma diretto e semplice nel linguaggio. Nelle galline la protagonista ha rivolto tutte le sue premure, e soprattutto le sue preoccupazioni, tanto da svegliarsi la notte per controllare se fossero vive.

"La vita non è altro che lo sforzo continuo di vivere. Certe persone lo fanno sembrare facile. Le galline no. Muoiono all'improvviso e senza una ragione"

Con questo libro ci convinceremo, come anche leggendo La figlia unica di Guadalupe Nettel, che la maternità non è solo portare in grembo un figlio e crescerlo ma è anche, in svariate misure differenti, la propensione a prendersi cura degli altri e a cercare tutti i modi possibili per farli stare bene.

Come amare una figlia - Hila Blum

L'incipit di questo romanzo è molto forte e toccante, una donna di nome Yoela è fuori in strada, davanti alla casa dove abita la figlia. E' lì ferma, da sola, che la guarda attraverso la finestra, vede anche il genero e le nipoti che non ha mai conosciuto. Ha compiuto un viaggio di oltre cinquemila chilometri per vedere da lontano l'amata figlia Leah che vive a Groningen, in Olanda.
La donna non si azzarda ad avvicinarsi a loro, a bussare alla porta ma osserva quello che accade da lontano, quasi si vergogna di essere riuscita a trovare la figlia, a vedere dove vive, come era andata avanti con la sua vita senza di lei. Non avrebbe nemmeno saputo come giustificare la sua presenza lì in quel momento e ad un certo punto decide di tornare a casa in Israele.
Leah ha abbandonato la sua casa e i suoi genitori molti anni prima, era successo qualcosa di drammatico che l'aveva portata a scappare via e a ricominciare una vita altrove. Cosa aveva spinto la ragazza ad andarsene? Cosa si era spezzato nel rapporto di complicità e reciproca fiducia che avevano sempre avuto le due donne?
Yoela non si aspettava nulla e non pretende di rientrare nella vita di sua figlia ma vuole solo assicurarsi, con i propri occhi, che Leah stia bene e che sia felice.
Inizia così la narrazione che viaggia tra il presente e il passato della vita di Yoela, il suo matrimonio con Meir, il rapporto con l'unica figlia, la paura della gravidanza, il suo essere madre, la voglia di un altro figlio, le preoccupazioni per la crescita e l'educazione di Leah.

"Voglio scrivere tutto di Leah ma è come se le parole dovessero passare attraverso la cruna di un ago.
Vorrei scrivere di lei senza parole ma è impossibile." (cit.)

Yoela ha un amore incondizionato per la figlia, a volte eccessivo e possessivo, ma l'amore di una madre non si può spiegare, questo traspare dalle pagine e attraverso il racconto della vita di questa donna capiamo quanto forte, disperato, potente sia questo sentimento. Un legame unico e speciale che lega una madre al proprio bambino.
Per Yoela, la paura inizia quando capisce di essere incinta, ma tutto il dolore e le preoccupazioni passano quando nasce Leah, non sa se il suo amore sarà mai abbastanza, se la figlia sarà felice, se come genitore fallirà o meno. Ma ci prova lotta contro se stessa, contro l'ansia che la pervade, con la paura che succeda qualcosa a sua figlia, la vorrebbe proteggere e salvare da ogni dolore, cerca di rassicurarla, di consolarla, la rimprovera raramente e cerca di darle una buona educazione e farla diventare una brava persona.

"La maternità cancellò tutto ciò che l’aveva preceduta. Non ricordavo più cosa avessi programmato, cosa mi aspettassi, cosa temessi. Niente mi faceva più paura." (cit.)

Nel corso della storia assistiamo al racconto di un dramma famigliare, Yoela non ha una famiglia perfetta, lei e Meir si amano però lei vorrebbe un altro figlio ma il marito no, i loro vent'anni di differenza si sentono molto, la protagonista cerca di tenere insieme la sua famiglia, di fare sempre la cosa giusta.
I legami famigliari sono difficili, a volte la famiglia può rappresentare un ostacolo, può essere un rifugio nel quale tornare nei momenti difficili ma non sempre è così. In una famiglia si commettono degli errori, ci sono litigi e incomprensioni ma di base c'è sempre l'amore, ma quando questo diventa eccessivo può intrappolare. E allora l'unica soluzione è scappare e forse un giorno tornare e ritrovare il calore di un abbraccio tra genitore e figlio.

"Non appena Leah finì di raccontare le cercai il viso, gli occhi, e vidi solo dolore. Una morsa di gelo le stringeva il cuore. Non capivo di che materiale fossa fatta mia figlia. La amavo in maniera insopportabile, forse impossibile, e odiavo quel ragazzo con la stessa intensità." (cit.)

L'autrice riesce a delineare la protagonista in maniera verosimile, trasmettendo al lettore tutte le sensazioni, le emozioni, i sentimenti e le paure che ha provato e le difficoltà del rapporto madre-figlia. E' una storia molto profonda e delicata e molte persone potranno identificarsi in essa, nelle difficoltà dei genitori ma anche in quelle di Leah.
E' un racconto sincero, senza filtri, che racconta una famiglia come tante, ma allo stesso tempo unica, della paura di amare troppo, di questo sentimento così difficile da controllare, di questa protezione eccessiva, che a un certo punto porta a una forte rottura.
Lo stile dell'autrice
è lento, a volte un po' prolisso soprattutto nella prima parte, con frasi e capitoli brevi e pochi dialoghi.
E' un romanzo impegnativo a livello emotivo che ti dona una serie di emozioni differenti, ma che ho trovato molto intenso, profondo e che fa riflettere sul rapporto genitori e figli guardando e considerando entrambi i punti di vista.
Un libro che porta anche un messaggio di speranza, che può essere interpretato in maniera differente, un rapporto si può ricostruire e migliorare sempre se lo si vuole, si può perdonare e amare un figlio o un genitore anche lasciando che commetta qualche errore e c'è un momento in cui la separazione è necessaria per far crescere un rapporto, per recuperalo o per ricucirlo.

Nulla si distrugge - Marco Vichi

In Nulla si distrugge (edito da Guanda) Marco Vichi torna con un nuovo caso per l’instancabile commissario Bordelli a cui i ritmi lenti della pensione, che si addicono forse a tanti - ma non a lui -, sembrano ricordargli che qualcosa è rimasto incompiuto: risolvere l’omicidio di un ragazzo avvenuto più di vent’anni prima.

Chi conosce il commissionario Franco Bordelli sa bene di chi stiamo parlando.
Un ragazzo e poi un uomo arguto, impertinente quanto basta da non passare inosservato e determinato a non farsi schiacciare da quello che qualcuno ha stabilito sia la normalità.
Quand’era in servizio la sua divisa gli imponeva di seguire rigidi protocolli, in cui lui però è sempre riuscito a muoversi fluidamente per rimanere fedele alla sua personale idea di giustizia, in uno slalom continuo tra ciò che doveva fare e ciò che voleva.
Arrivata la pensione sembrava naturale che si mettesse da parte. Divisa nell’armadio, Bordelli ha vestito panni diversi per inseguire però la stessa, autentica sete di verità. Anche per gli altri, certo, ma soprattutto per sé stesso.

"Non vedeva l’ora, ma gli sarebbe piaciuto partire leggero, senza troppi pensieri… Prima voleva cercare di risolvere il caso di omicidio del ’47, che da ventitré anni gli mordeva le orecchie"

E così realizzare il sogno di una vita di incontrare la propria scrittrice preferita rimane sospeso. Vorrebbe prendere quel treno per Parigi, e lo potrebbe fare. Ma come l’ago di una bussola è irrimediabilmente attratto dal suo nord, anche Bordelli non può opporsi a una forza che lo muove e lo guida da dentro:

"Ma per lui, per l’ex commissario Franco Bordelli, non era una questione politica… Si trattava di una faccenda personale, magari anche dettata dall’amor proprio, oltre che dalla sua innata passione che lo spingeva a cercare di sciogliere i garbugli"

Un caso intricato, scomodo ai tempi, che nessuno ha avuto il coraggio di sviscerare sembrava oramai appartenere a quella parte di passato in cui sono cadute, senza che se ne abbia memoria, chissà quanti fatti, chissà quante persone.
Gregorio Guerrini era il figlio di un industriale con tendenze fasciste, probabilmente accoltellato per vendetta contro l’orientamento del padre. L’omicidio ai tempi è stato accantonato in cassetti stracolmi di casi che aspettavano pazientemente il loro turno e dedicare del tempo a un “incidente” che avrebbe scosso un Paese già sull’orlo del baratro non era conveniente.

"L’ignoto aveva il suo fascino. Tra poco avrebbe cominciato a scoperchiare un sarcofago che ventitré anni prima era stato chiuso nella memoria di ragazze diventate ormai donne"

Qualcuno può giudicarlo un sentimentale, un nostalgico radicale che continua a vivere nel passato a discapito del suo nuovo presente. E anche il lettore non è immune da questo gioco temporale.
Il marchio di fabbrica di Marco Vichi è proprio la continua alternanza di tempi e luoghi, dimensioni parallele che custodiscono storie che durante la lettura si incrociano, si separano e si ritrovano di nuovo.
Dal presente di un Bordelli in pensione negli anni ’70 capita di ritrovarsi nel suo passato di commissario in servizio e di arrivare poi al cuore di un caso, risucchiati in un imbuto che si stringe sempre più e non ti lascia il tempo di respirare fino all’ultima pagina.
Nulla si distrugge, tutto sembra collegato da fili sottili, invisibili, legati tra loro con doppi e tripli nodi da sciogliere.

"Piangeva, piangeva, ma le sue labbra quasi sorridevano, le stava uscendo dall’anima il veleno che le era marcito dentro per tutto quel tempo, doveva essere la prima volta che raccontava quelle cose, che le riviveva camminandoci in mezzo con le parole…"

Port Mungo - Patrick McGrath

Vera Savage e Jack Rathbone (Il “giovane pintor grande, la sua pirata”) sono anime inquiete: si sono conosciuti a Londra e, dopo aver fatto tappa a New York, riparano a Port Mungo, Caraibi (“Vagava per i Caraibi insieme a una donna difficile, con la quale aveva una rovente e complicata storia d’amore”), alla ricerca dell’ispirazione artistica che consacri al successo definitivo l’ambizioso ed esibizionista Jack.

La relazione burrascosa e tormentata tra i due artisti viene narrata da Gin, sorella di Patrick, di lui infatuata (“Si era presa l’uomo che amavo”).
A Port Mungo Jack elabora una tecnica pittorica primitiva (“I suoi quadri malarici”), essenziale (“Ricordavo i colori spessi e fragorosi dei dipinti di Port Mungo, lo sguardo rozzo del primitivista, o meglio del tropicalista”) e violenta, ispirandosi a un modo di vivere rudimentale (“L’odore della carne macellata si mescolava alla fragranza della papaya e del mango”) e selvaggio (“Osservai un uomo sventrare un’iguana con un machete”), mentre Vera dà libro sfogo al suo temperamento infedele e vagabondo, tra fiumi di gin e rum.
Così su Jack incombono i doveri familiari nei confronti delle due bimbe nate dall’amore tormentato.
Ma la primogenita Peg muore tragicamente e la sua morte ricorre come ossessione (“Sogno dell’acqua bassa”) nei quadri del padre (“Posizione di Narciso”) in un nuova fase creativa (“La violenza con la quale aggrediva le tele: praticamente le violava”).
La secondogenita Anna, sottratta alla potestà per manifesta “irresponsabilità criminale” dei genitori dopo la morte di Peg, torna a New York dal padre, determinata a scoprire la verità…

La storia che racconta Gin corrisponde a verità?
E Jack è davvero il grande artista che la sorella tratteggia (“Aveva creato uno stile chiamato tropicalismo”)?
Come sempre, Patrick McGrath indaga i rapporti umani e le trappole della psiche con ambivalenza narrativa, diffondendo sulla storia chiaroscuri gotici e ombre proiettate da rielaborazioni e distorsioni dei complessi di Narciso, Elettra (figlia-padre), Mirra (padre-figlia), Antigone (sorella-fratello).

Giudizio finale: tropicalista, bohémien, inquietante.